Trump e i dazi per un nuovo ordine mondiale


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“TRUMP E I DAZI PER UN NUOVO ORDINE MONDIALE”

 

La forza per fare sul serio

Una prerogativa di Trump è quella di fare, più prima che poi, esattamente quello che dice.
In campagna elettorale ha declinato il suo programma che è stato da moltissimi interpretato – erroneamente - come propagandistico.
In Europa, in particolare, si è cominciato a fare la tara alle sue affermazioni ridimensionandole, ritenendo che i tempi e le difficoltà di realizzazione dei suoi propositi, anche se depotenziati, sarebbero stati biblici.
E sì che quello che affermava Trump in campagna elettorale era perfettamente in linea con il suo pensiero e il suo modo di agire dei quali si era avuta una chiara anticipazione in occasione del precedente mandato.
Allora la forza di Trump non era paragonabile a quella attuale perché il mondo è nel frattempo cambiato; internamente, si è disgregata l’opposizione “Dem" e tutti gli organismi di controllo che fungono da contrappeso all’ immenso potere del Presidente sono finiti sotto il suo controllo.
La crisi del Partito Democratico (e l’avanzata trionfale di quello Repubblicano che ha in Trump il proprio portabandiera), è il riflesso di quella del modello economico occidentale, che conosciamo in Europa dal dopoguerra e che, pur con tutti i suoi limiti, ha assicurato ottant’anni di pace e di progresso economico e sociale.
 

Nuovi modelli politici ed economici

Nell’era che stiamo vivendo, i cambiamenti dei modelli di sviluppo sociali e politici sono la conseguenza delle intervenute modifiche (volute o subite) delle dinamiche economiche.
Politica ed economia sono tra loro intrecciate al punto che non esiste atteggiamento politico che non abbia riflessi economici (sulla formazione e distribuzione della ricchezza e, alla fine, sul tenore di vita delle persone e la crescita sociale), esattamente come non esiste andamento economico che non abbia condizionato o imposto iniziative e processi politici come diretta conseguenza.
Guardando al mondo occidentale e con un occhio all’Europa, la stabilità politica (intesa come condivisione stabile dei capisaldi del modello di sviluppo) ha contribuito a creare un sistema economico in evoluzione costante secondo linee volute o quanto meno accettate.
Dalla fine del secolo scorso, in particolare, il concetto di inclusione sociale e economica è diventato dominante.
Il mondo occidentale, in ragione della condivisione del modello economico di sviluppo e con lo scopo di rafforzare il contesto politico nel quale si muoveva, ha creato organizzazioni sovranazionali dove le componenti economica e politica si compenetrassero.
Dalla Unione Europea, alla Organizzazione Mondiale del Commercio, dalla Organizzazione Mondiale della Sanità alla Corte Penale Internazionale, al G7, dalla Nato all’azione comune in difesa dell’Ucraina, al Trattato di Parigi e così via.
 

Orpelli e strutture inutili

Secondo Trump si tratta di orpelli, strutture inutili buone solo a raggruppare i paesi secondo lui nemici dell’America, rei di averle impedito di mantenere quella condizione suprematista che la fine della Seconda Guerra mondiale le aveva riconosciuto, e che nel corso degli anni l’hanno depredata, impedendole di perseguire i suoi fini di sviluppo.
Le organizzazioni internazionali, secondo Trump, vanno quindi da subito contrastate e, non a caso, sono finite immediatamente nel mirino, come dimostrano i primi provvedimenti varati da Trump con i suoi “Atti Esecutivi”.
 

Crolla il mito della globalizzazione

Indipendentemente dal pensiero di Trump, va detto però che quel modello economico-politico stava indebolendosi e ciò malgrado fosse stato voluto e realizzato da tutti i paesi occidentali con il ruolo centrale, anche se non suprematista, proprio degli Stati Uniti.
Infatti, con il nuovo secolo, cominciava ad aprirsi una frattura che, se osservata per quella che era, sarebbe apparsa come un vero cedimento.
Tanto è vero che, dopo la caduta di alcuni calcinacci, precipita, in un attimo, la “madre di tutte le certezze”, quanto meno occidentali, ovvero la fiducia nel modello di globalizzazione e libero scambio che progressivamente era diventato una sorta di credo assoluto.
Muore l’idea che il mercato si possa porre al di sopra delle esigenze umane al punto che sia l’offerta a generare la domanda.
Decade la convinzione che il sistema fosse perfetto nell’autosostenersi potendo generare offerte a costi sempre più bassi, grazie all’ ingresso nel mercato di paesi sempre più poveri, con costi del lavoro sempre più bassi, per intercettare una domanda latente in paesi e in popolazioni che, per quanto povere, avrebbero comunque potuto permettersi prodotti e servizi sempre più a buon mercato.
Si affaccia la convinzione che il sistema non solo non fosse in moto perpetuo, ma neppure in grado di autoalimentare la propria accelerazione, con ciò rinnegando l’esistenza di una sua capacità intrinseca di alimentare un circolo virtuoso, nel quale avrebbero goduto di super benefici i più ricchi, ma qualche briciola sarebbe arrivata anche a chi non aveva mai visto neppure quella.
 

La crisi mondiale pandemica e bellica: gli interventi pubblici

La crisi mondiale pandemica e bellica assesta il colpo finale e il cedimento diventa un crollo che riporta tutti alla realtà e, in particolare, fa prendere atto che il sistema economico, per reggersi, necessita di potenti interventi pubblici a sostegno delle singole economie.
La forza economica dei paesi è però diversa dall’uno all’altro e non si attiva alcuna vera azione di aiuto reciproco, perché ciascuno deve prima di tutto pensare a se stesso come accade in ogni occasione nella quale sia in gioco la propria esistenza.
In Europa si cerca di fare fronte comune ma i “franchi tiratori” esistono anche qui, come la Germania che interviene con imponenti sostegni pubblici alle proprie imprese per consentire loro di contrastare i vertiginosi costi energetici e fronteggiare, moltiplicando le scorte, la crisi di approvvigionamento di materie prime.
Un’azione “fuori dal coro Europeo” che genera una concorrenza sleale anche all’interno del mercato comunitario.
Non solo, la crisi colpisce diversamente i vari paesi del mondo, i meno aggrediti tra i quali diventano poli di attrazione economica e industriale a danno di altri pur industrialmente evoluti.
 

La Cina è vicinissima, anzi è arrivata

La Cina irrompe in questo scenario, (non che prima non fosse presente, ma era nella posizione di “paese emergente” e non di competitor internazionale di primo livello), forte di una economia che godeva - e gode - di immensi sostegni statali, che ne hanno favorito uno sviluppo perfettamente consolidatosi, programmato a tappe forzate e con incrementi del PIL di decine di punti all’anno (cosa possibile unicamente in uno stato centralizzato e autoritario), diventata un paese commercialmente e tecnologicamente avanzato in grado di scalare il mercato mondiale.
Il sostegno alle imprese Cinesi da parte dello Stato centrale non è paragonabile a quello di nessun altro paese al mondo.
L’effetto è quello di un’industria, quella cinese, che, dopo aver saturato la domanda interna, si misura con la necessita di ribaltare il surplus di offerta sul mercato mondiale e, in particolare, in Europa e in America.
Si tratta di una potenza in grado di rimanere quasi indifferente alla crisi mondiale della quale coglie, in particolare nel rapporto con la Russia, gli elementi a lei vantaggiosi, compreso il porsi al vertice dei BRICS (il raggruppamento di economie mondiali emergenti, formato da Brasile, Russia, India e Cina con l'aggiunta di Sudafrica, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Iran e Indonesia che si contrappone al G7) con l’intento di sottrarre la guida del commercio mondiale all’occidente.
 

Trump, il catalizzatore

Trump catalizza lo scontento occidentale, prende atto della fine del modello di globalizzazione e di come sia in arrivo il suo opposto, ovvero la deglobalizzazione mondiale.
Capisce che potrebbe essere l’occasione per riportare l’America (che lui identifica con i soli Stati Uniti), ai vertici di un nuovo e diverso sistema economico (e sociale), in veste di sua ideatrice, coordinatrice e gendarme.
 

America First

Al grido di “America First” e “Make America Great Again” egli si propone di recuperare la centralità degli Stati Uniti secondo uno schema operativo che parte dal contrasto nei confronti di ogni tipo di organizzazione mondiale, covo dei nemici degli States.
 

Anche l’UE è un nemico degli States

Una posizione ideologica, quella di Trump, non suffragata da qualcosa di concreto, che coinvolge però anche l’Unione Europea che, in quanto aggregazione, non si sottrae a questo giudizio perché, come ha detto Trump qualche giorno fa: “L’Europa ci ha trattato malissimo“, intendendo con ciò che essa avrebbe letteralmente saccheggiato gli Stati Uniti.
L’unica probabile differenza di trattamento che le sarà riservato, rispetto a quanto finora applicato a Groenlandia, Canada, Messico e Panama e che sarà applicato in futuro passando di paese in paese, dipenderà dal fatto che Trump si troverà di fronte ventisette stati (per altro non coesi) che costituiscono un mercato ricchissimo, con rapporti consolidati con la Cina e con la Russia (che si riattiveranno, questi ultimi, come per incanto, non appena terminata la guerra con l’Ucraina, perché gli affari non guardano in faccia nessuno), che sono i principali nemici (si spera solo economici, ma non ci giurerei) dell’America.
 

Il “Rinascimento” voluto da Trump

“America First”, quindi, e un “vassallaggio felice” (espressione efficace coniata dal Presidente Mattarella), per tutti i buoni, cioè coloro che vogliono l’America davanti a tutti e un destino triste per tutti i nemici, ovvero coloro che questo nuovo ordine non lo vorranno non anelando al vassallaggio, che è quello che attende chi si troverà ai margini del “rinascimento” economico voluto da Trump.
 

Non solo politica, serve la potenza economica

Politica ed economia si intrecciano e un’azione politica volta a creare un modello suprematista deve trovare sostegno in una forza economica dirompente, funzionale al medesimo obiettivo.
Trump è consapevole che l’economia degli Stati Uniti è, ora come ora, troppo debole per sostenere un disegno di tale portata.
Si tratta di un’economia oggettivamente in crisi, che vede la posizione finanziaria netta statunitense (i debiti contratti dal sistema pubblico e privato nei confronti del resto del mondo) in negativo di 24.000 miliardi di dollari con un deficit che si attesterà nel 2024, presumibilmente, a circa 1.915 miliardi di dollari pari a circa il 6,7% del PIL.
 

Meno importazioni, più esportazioni

Accrescere il valore delle esportazioni è fondamentale per ridurre la dipendenza commerciale dall’estero, fianco scoperto del sistema America che, ancora oggi, segna un disavanzo nella bilancia dei pagamenti che ha superato i 3.000 miliardi nel 2024.
Dipendenza in particolare nei confronti dell’Europa, covo dei cattivi, secondo Trump, che viene tuttavia preferita dagli Americani quanto a beni e servizi da importare, visto che gli scambi Usa-Ue occupano ancora il 42% del totale mondiale.
Al contrario le esportazioni statunitensi sono concentrate nel settore dei servizi, perché nel manifatturiero l’economia a stelle e strisce è davvero poco efficiente.
Un divario praticamente impossibile da recuperare semplicemente alzando la produttività del comparto industriale e l’offerta e la qualità dei prodotti americani, così da vincere una battaglia commerciale tradizionale con il resto del mondo.
 

Troppe, anche per l’America, le risorse da investire

Servono soldi per alimentare lo sviluppo, specie se esso è funzionale alla creazione di un nuovo ordine economico mondiale.
È prevedibile, allora, che, in aggiunta a quanto sta facendo per il “vassallaggio allegro” (intervenendo a gamba tesa anche nella polveriera mediorientale, introducendo il tema immobiliare di una Gaza senza Palestinesi, ma popolata di ricchi Americani e allegri vassalli Israeliani tutti in vacanza in resort di lusso con alle spalle le macerie di un paese distrutto), Trump procederà a una totale deregolamentazione per permettere in America la generazione di ricchezza proveniente da ogni forma di impiego finanziario: dalle criptovalute “popolari” da pochi centesimi, alle trivellazioni, all’intelligenza artificiale finanziata dal governo federale, ma anche dalla ripresa di settori tradizionali come acciaio, meccanica e agricoltura, attirando i produttori esteri e difendendo le produzioni nazionali.
Sarà una politica economica e finanziaria caratterizzata dalla ferma volontà di attrarre i capitali e i risparmi di tutto il mondo entro i confini degli Stati Uniti.
 

I tempi troppo lunghi di una battaglia commerciale senza dazi

Il fattore tempo gioca però a sfavore ed è imperativo evitare i tempi di una battaglia commerciale destinata a durare semplicemente troppo.
Un tempo durante il quale i nemici, i competitors con la Cina in testa e, Dio non voglia, con al seguito l’Europa e la Russia, potranno ridimensionare le aspettative Americane potendo contare, in primis la Cina, su economie assolutamente evolute e in grado di produrre, tra i tanti, anche quei beni e servizi dei quali la stessa America ha bisogno in prima persona per far crescere la propria industria.
Il rischio, per Trump, sarebbe di non essere circondati da vassalli felici ma da lupi famelici.
Di qui la politica dei dazi, un “booster” indispensabile per accelerare (finanche consentire) la realizzazione del progetto trumpiano.
 

La guerra dei dazi non ha né vincitori né vinti

Una battaglia, quella dei dazi, senza né vincitori né vinti: che sia così l’America lo ha già sperimentato, misurando sulla sua pelle gli effetti devastanti della guerra commerciale che essa stessa avviò nel 1930 e che portò alla Grande Depressione.
Reed Smoot, senatore repubblicano e presidente della Commissione finanze del Senato americano, era convinto che la ricetta per contrastare la recessione iniziata nel 1929 e per restituire all’America lavoro e benessere, fosse costituita da dazi e protezionismo.
Nonostante l’appello di oltre mille economisti a non farlo, l’allora Presidente americano Herbert Hoover ratificò lo Smoot-Hawley Tariff Act che, nel giro di una notte, determinò un aumento dei dazi del 60% su oltre ventimila prodotti stranieri, in alcuni casi quadruplicandone il prezzo.
Questa misura causò una serie di ritorsioni a catena, innescando una guerra commerciale con Canada, Francia, Impero britannico e Germania, che comportò il crollo degli scambi con l’estero, assieme alla caduta del PIL mondiale e allungò i tempi di uscita dalla recessione.
Nel giro di tre anni le importazioni degli Stati Uniti crollarono del 66% e le esportazioni del 61%.
Il tasso di disoccupazione passò dall’8% al 25%.
Gli Stati Uniti non conobbero la “nuova prosperità” che lo Smoot-Hawley Tariff Act aveva esaltato, ma videro dimezzare la loro ricchezza.

 

E la Cina?

In tutto ciò è lecito domandarsi se Trump faccia i conti con l’attore più importante nella scena mondiale, ovvero la Cina.
Alla mezzanotte di martedì 4 Febbraio sono entrati in vigore i nuovi dazi del 10% sulle importazioni dalla Cina.
Alla volta del 10 Febbraio sono entrati in vigore i dazi Cinesi, disposti come reazione a quelli americani, del 15% sulle importazioni di carbone e gas naturale liquefatto (GNL) dagli Stati Uniti e del 10% per cento sul petrolio e i macchinari agricoli,
 

Quali gli effetti dei dazi Cinesi?

Si tratta di “mini-dazi” che potrebbero però produrre effetti comunque importantissimi.
Sul piano politico la risposta Cinese ai dazi americani potrebbe sottintendere un preciso “alert” agli Stati Uniti di come i legami della Cina con la Russia possano rafforzarsi, oltre quanto già sperimentato, in particolare sul fronte degli approvvigionamenti energetici e sulla disponibilità dei componenti necessari allo sviluppo dell’intelligenza artificiale, sulla quale la Cina sta facendo passi da gigante.
Su quello dei mercati finanziari l’obiettivo immediato potrebbe essere quello di mettere in tensione le Borse americane tradizionalmente schizofreniche nei loro comportamenti.
Nulla di strano se l’effetto dei dazi Cinesi fosse allora quello di ingenerare ondate di vendite ribassiste nei mercati americani e, per trascinamento, in quelli europei, favorendo contemporaneamente la lievitazione dei listini di quelli Cinesi e Asiatici, tale è la forza e credibilità Cinese.
Le conseguenze sarebbero pesantissime per il sistema industriale e finanziario occidentale nel quale sempre più imprese di grandi dimensioni, altro fattore del suo decadimento, sono vieppiù attirate, nel loro operare, dalla gestione finanziaria di risorse di terzi (ottenute con importanti indebitamenti nei confronti del sistema creditizio), per farne un utilizzo puramente speculativo, anziché impiegarle per il proprio sviluppo commerciale.
 

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© Questo articolo, a firma di Attilio Sartori, è apparso per la prima volta sul Blog LA MOSSA GIUSTA.
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