Trump e i dazi: chi la fa l'aspetti


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“TRUMP E I DAZI: CHI LA FA L'ASPETTI”

 


Quando la realtà supera la fantasia

È proprio vero: a volte la realtà supera la fantasia.
Qualche giorno fa ho postato sul sito dello Studio Associato MSC questa mia ultima videointervista TRUMP E I DAZI: CHI LA FA L' ASPETTI dedicata alla politica dei dazi avviata da Trump, per illustrarne il funzionamento, gli effetti, le conseguenze sia per chi li applica che per chi li patisce.

A distanza di una decina di giorni il tema, che era di attualità, ma non così dirompente, è diventato centrale e talmente divisivo da far pensare che sia in grado di sovvertire gli equilibri mondiali, non solo sul fonte commerciale ma, soprattutto, geopolitico e militare.
 

Trump e i figli di Einstein

Certamente Trump si è circondato di collaboratori che non sono figli di Einstein e che si distinguono per essere soggetti privi di preparazione specifica per i ruoli apicali nei quali sono stati messi.
Per l’economia il duo è rappresentato da Elon Musk e Howard Lutnick.
Il primo lo conosciamo bene.
Imprenditore e uomo più ricco del mondo, si ripete all’infinito che si è subito distinto per fare l’alter ego di Trump infilandosi tra lui e Vance, il vicepresidente, che ha almeno il pregio di essere stato eletto, mentre lui no.
Malgrado ciò Musk si inserisce ripetutamente nella politica mondiale e, internamente, ha già proceduto a migliaia di licenziamenti (procedendo a caso) nella pubblica amministrazione statunitense per passare ora alle forze armate.
Quanto a Lutnick si tratta di un imprenditore d’assalto e, ovviamente, di un miliardario.

Come ben si vede non si tratta di economisti e tanto meno di politici di professione, ma di imprenditori abituati a far valere la legge del più forte, che negli affari è la regola (almeno negli Stati Uniti), ma non altrettanto può essere nella gestione dell’economia statunitense e di fatto, stante la sua rilevanza, mondiale.
Dal canto suo Trump non si distingue per intelligenza e moderazione politica ma, al contrario, per la veemenza verbale e per fare sempre più spesso di una sorta di ricatto la propria arma preferita, che trova ora nei dazi le pallottole.
 

Trump e il suo board sono consapevoli di quello che fanno?

È il caso allora di domandarsi se Trump e la sua amministrazione siano consapevoli di cosa voglia dire la parola “dazi” e come vadano applicati per evitare che si trasformino in un boomerang per chi li applica e un danno planetario per l’economia.
La domanda è lecita se solo si guarda al comportamento ondivago tenuto da Trump e dal suo board, che prima impone i dazi, quindi li sospende, per poi reintrodurli, allargando e poi riducendo il numero dei paesi destinatari, aprendosi e quindi chiudendosi a possibili trattative, imponendoli su tutti i beni per poi differenziarli, revocarli, per poi minacciarli nuovamente.
Nel suo discorso sullo stato dell’Unione Trump ha affermato che li applicherà al mondo intero, dal Brasile al Messico e al Canada, dall’Unione Europea alla Cina, dal Giappone alla Corea. Non solo ai paesi nei confronti dei quali esiste un deficit commerciale, ma anche a quelli con i quali la bilancia commerciale è in attivo.
Che Trump e il suo board non abbiano le idee chiare è confermato dal fatto che giovedì 6 marzo The Donald ha deciso di sospendere fino al prossimo 2 aprile i dazi del 25%, entrati in vigore martedì scorso (dopo che erano già stati precedentemente posticipati) su un gran numero di prodotti provenienti dal Messico e dal Canada.
Ha aggiunto di averlo deciso «per rispetto» della presidente del Messico Claudia Sheinbaum, con cui dice di aver avuto «un confronto molto positivo».
Basta allora così poco per cambiare idea su un tema tanto importante?

Ancora prima, mercoledì 5 marzo, l’amministrazione Trump aveva annunciato che le società produttrici di automobili Ford, Stellantis e General Motors avrebbero avuto un mese di esenzione.
L’entrata in vigore dei dazi, infatti, rischiava di mettere in crisi l’intero settore automobilistico, anche per le auto prodotte negli Stati Uniti.
 

MAGA e America First tra dazi, suicidi e politica

Per un paese che importa beni per circa 365 miliardi dollari (dato di dicembre 2024) imporre dazi all’importazione appare un suicidio.
Per quanto sia Trump che il suo board di miliardari possano essere inadeguati al ruolo assunto, il danno che gli Stati Uniti hanno sperimentato negli anni ‘30 per aver avviato una politica analoga e le conseguenze devastanti che gli analisti di tutto il mondo prevedono a causa della reiterazione di quella scelta pazzesca, dovrebbero essere noti ed evidenti anche a loro.

La minacciata e in parte avviata guerra commerciale, non risponde quindi a ragioni di politica economica, che dovrebbe viceversa puntare al recupero del neo liberismo commerciale, in essere dagli anni ’80, superando i limiti che pure la rincorsa al mercato globale ha manifestato, ma a ragioni politiche, potendo essere i dazi utili strumenti di minaccia e pressione nelle mani di Trump per realizzare il suo sogno suprematista di un’America, che lui fa coincidere con gli Stati Uniti, che tornerà a essere grande secondo gli slogan MAGA e America First.
 

Partiamo dall’inizio: i dazi questi s-conosciuti

È il caso di ripartire dall’inizio, domandandosi cosa siano i dazi.
Sembra una domanda banale, ma non è possibile parlare di una minacciata guerra commerciale se non si ha chiaro in cosa consista l’arma in grado di scatenarla e alimentarla.

I dazi sono un’imposta che si applica sulle merci in arrivo da un paese straniero, e sono imposti partendo dal presupposto di proteggere in questo modo la produzione interna dalla concorrenza estera.
Si esprimono in valore percentuale del prezzo di vendita e di solito ricadono concretamente sull’importatore che li paga alla dogana del paese di ingresso.
 

La pochezza di un ragionamento

Sulle auto elettriche cinesi l’Unione Europea ha imposto un dazio pari al 17%.
Su una vettura che costa 20 mila euro all’importazione significa che il grossista italiano che la comprerà dovrà pagare alla dogana 3.400 euro di dazio.
Portare l’auto in Italia gli sarà costato quindi 23.400 euro, più tutte le spese di trasporto, e - se non vorrà rimetterci - dovrà venderla a una cifra non inferiore.
Se trovasse un cliente disposto a pagare un prezzo maggiorato pur di disporre di quella determinata auto elettrica prodotta in Cina, l’onere del dazio ricadrebbe completamente su quest’ultimo ovvero, in generale, su tutti i consumatori che vogliono comunque disporre di beni di importazione per quanto gravati di dazi.
In alternativa il minor prezzo delle auto elettriche prodotte in Europa (non gravato del dazio) dovrebbe indurre i consumatori a comprare queste ultime.

Il ragionamento sottostante l’introduzione dei dazi appare di una pochezza disarmante, troppo elementare e in pieno contrasto con quelle che sono le più banali logiche di funzionamento di un qualsiasi mercato.
Non solo, le conseguenze negative dell’introduzione dei dazi e la conseguente limitazione alla libera circolazione delle merci ricadrebbero certamente sul mercato globale, ma ben potrebbero concentrarsi anche su quello del paese che tali dazi ha imposto.
 

Quando il peso dei dazi ricade sul consumatore dei beni importati

Va detto per prima cosa che la propensione all’acquisto ha nel prezzo solo una componente che spesso non è la più importante.
Il consumatore che desiderasse un determinato bene, riconoscendovi un valore aggiunto rispetto agli altri della stessa specie, può essere disposto a spendere di più pur di disporne.
Ciò è tanto più vero quanto maggiore è la capacità di spesa del consumatore, perché va sempre ricordato che gli acquisti si distinguono tra essenziali (la casa, il cibo, la sanità, il riscaldamento, la scuola dei figli, le spese per il trasporto personale…) e voluttuari (la cena al ristorante, cibi raffinati e vini di pregio, le vacanze, le automobili di prestigio, la casa di villeggiatura…).
Le spese del primo tipo sono incomprimibili, perché non se ne può fare a meno, mentre delle seconde, almeno in una certa misura, certamente sì, con la particolarità che il grado di comprimibilità di queste ultime varia a seconda della capacità di spesa di chi le sostiene.
A parità di spese incomprimibili, una famiglia a basso reddito potrà destinare a quelle comprimibili solo una piccola porzione delle proprie risorse, destinata a ridursi se solo le spese di prima necessità dovessero aumentare (a causa dei dazi, ma non solo) fino al punto di poter sostenere solo queste ultime non potendo acquistare null’altro.
Diversamente da chi ha una capacità di spesa elevata che comunque potrà sempre sostenere le spese per i beni non strettamente necessari, al massimo limitandone l’acquisto senza tuttavia sospenderlo.

Guardiamo, per esempio, al Messico, che è la più grande fonte di approvvigionamento di ortofrutta per gli Stati Uniti in base ai dati forniti dal Dipartimento dell’Agricoltura statunitense, che riporta come questo paese abbia alimentato, nel 2023, il 63% delle importazioni di verdura e circa il 41% di quelle di frutta e noci degli States.
Si tratta di beni alimentari il cui acquisto è difficilmente comprimibile e il primo effetto sarà che le famiglie a basso reddito dovranno, non potendo ridurne i consumi e subendone il maggior costo, ridurre la quota parte della propria capacità di spesa destinata agli altri beni.
Il dazio ricadrà quindi interamente sulle fasce più deboli, che sono la maggioranza, che ridurranno la loro domanda interna di beni il cui consumo è comprimibile, compromettendo la tenuta di altri comparti commerciali a danno dell’economia complessiva statunitense e ciò nell’invarianza dei flussi di esportazione messicani.
 

Una spinta all’aumento generalizzato dei prezzi e all’inflazione

Un altro aspetto riguarda la probabilità che i commercianti americani, che vendono/producono beni non gravati da dazi, vedendo che i prezzi sono tendenzialmente in aumento in capo a tutti i beni di importazione, aumenteranno a loro volta i prezzi dei propri beni, allo scopo di massimizzare i propri margini, favorendo la crescita generalizzata dei prezzi e con essa la spinta inflazionistica.

Nell’esempio fatto, potranno allora essere scarsi o modesti gli effetti a carico del paese esportatore, mentre quello importatore patirà, oltre a un rallentamento del proprio ciclo economico, anche il danno rappresentato dalla spirale inflazionistica.
Per non fare male, i dazi devono essere applicati puntualmente.
Nell’applicazione dei dazi non è quindi possibile procedere in maniera generalizzata su tutti i beni di importazione, come si propone di fare Trump, ma gli stessi andranno diversificati identificando la fascia di consumatori su cui ricadranno, in modo da salvaguardare i consumi incomprimibili operando, inevitabilmente, a danno di quelli comprimibili, ma per questa via limitando gli effetti dannosi descritti, in quanto la barriera commerciale riguarderebbe un numero di prodotti enormemente inferiore.

Il discorso fatto per i prodotti agricoli vale per tantissimi altri beni di importazione da tantissimi paesi.
Guardiamo al Canada, al centro dell’aggressione protezionistica Trumpiana, al pari del Messico e della Cina.
Il petrolio canadese rappresenta il 60% delle importazioni petrolifere statunitensi.
Il greggio canadese è l’unico che può essere lavorato dalle raffinerie americane che non sono progettate per utilizzare il petrolio di estrazione nazionale (trattandosi di petrolio di scisto, ovvero risultante dalla frammentazione di rocce di scisto bituminoso) troppo “leggero”.
Sotto questo profilo, quindi, oggi gli Stati Uniti si trovano in una situazione paradossale.
Esportano il loro “shale oil” leggero (petrolio di scisto), mentre devono importare il petrolio canadese più pesante per mantenere operative le loro raffinerie.

Malgrado ciò Trump non ha rinunciato ad applicare un dazio, per quanto in misura ridotta, anche a questo bene, col risultato che il prezzo alla pompa della benzina aumenterà.
Per gli americani, come in tutto il mondo, quella della benzina è una spesa non comprimibile e anche in questo caso, se per le fasce a reddito più alto ciò non comporterà una flessione nella domanda di beni voluttuari (comprimibili), il contrario avverrà per quelle a ridotta capacità di spesa.
 

E se il peso del dazio venisse assorbito dall’esportatore?

In aggiunta all’ipotesi che il dazio gravi per intero sul consumatore finale del bene importato se ne può verificare una seconda, che cioè esso venga assorbito dall’esportatore.
Come si è detto, l’Europa applica un dazio del 17% sull’importazione di auto elettriche cinesi che, nell’esempio di prima, finisce per gravare interamente sul consumatore finale comunitario.
Il produttore di auto elettriche cinesi potrebbe temere che questo aumento di prezzo possa ridurre la propria quota di mercato nel paese di esportazione.
Per evitare ciò egli potrebbe farsi carico in prima persona del dazio, pagandolo lui stesso in frontiera senza ricaricarlo su prezzo del veicolo, lasciando quindi il prezzo finale invariato.
Manterrebbe in questo modo la quota di mercato, ma vedrebbe ridursi il proprio margine.
Sarebbe allora l’economia del paese esportatore a subirne le conseguenze, perché le risorse disponibili in capo agli esportatori per investimenti e consumi nazionali si ridurrebbero.
L’esportatore dovrà quindi essere aiutato dal paese di appartenenza, che è come dire che sarà quest’ultimo a sostenere il peso dei dazi.
Se il paese esportatore fosse una potenza economica quale è la Cina, indiscutibilmente avviata a diventare leader mondiale nel commercio e nella produzione di beni, non le sarà difficile sgravare l’esportatore cinese del peso del dazio, magari avviando nel contempo una politica di contro-dazi, applicati all’esportazione statunitense, in più operando per accelerare la propria penetrazione commerciale in tutto il mondo. forte del primato economico, tecnologico, industriale e finanziario, ormai indiscutibilmente acquisito.

Il dazio Trumpiano non avrà avuto quindi alcun effetto protettivo del mercato interno, ma lo avrà viceversa candidato a diventare vittima del suo stesso operare.
 

Tempus fugit

Se l’intento della limitazione alla libera circolazione delle merci è quello di sostenere il mercato interno, è necessario che quest’ultimo sia in grado di far fronte alla domanda interna, rimasta insoddisfatta a causa della riduzione del flusso di importazioni.
Se così non fosse si produrrebbe un eccesso di domanda rispetto all’offerta, non momentaneo e con conseguente impennata dei prezzi e, anche in questo caso, tensione inflazionistica.

Per evitare che il mercato si riaprisse alle importazioni sarebbe allora necessario incrementare rapidissimamente la produzione nazionale, cosa difficile di per sé e certamente impossibile nel breve periodo.
Come sarebbe infatti possibile aumentare quasi istantaneamente la produzione di frutta e ortaggi in misura tale da coprire l’importazione dal Messico o dotarsi di raffinerie in grado di lavorare il petrolio “leggero” di estrazione statunitense per sostituire quelle attualmente esistenti, idonee a processare solo quello di importazione?

Tanto più che gli Stati Uniti storicamente “dipendono” dalle importazioni essendo in una condizione di deficit commerciale, si potrebbe dire, strutturale, a causa delle elevate importazioni di petrolio e beni di consumo, che lo hanno portato a 98,43 miliardi di dollari a dicembre 2024.
 

Il timore delle aziende e il loro comportamento

La temuta guerra dei dazi del presidente Trump, sbandierata fin dai tempi della campagna elettorale, ha condizionato pesantemente, inoltre, il comportamento delle aziende sul fronte degli approvvigionamenti.

Negli Stati Uniti, a febbraio, la corsa all'importazione di beni e servizi dall'estero, secondo i dati dell'Ufficio delle analisi economiche statunitense, ha provocato un aumento del deficit, rispetto al mese precedente, del 34% portandolo a 131,4 miliardi di dollari.
Nel dettaglio, le importazioni sono aumentate del 10% portandosi a 401,2 miliardi di dollari mentre le esportazioni sono cresciute solo dell'1,2% per arrivare a 269,8 miliardi.

Questo perché le aziende importatrici si sono adoperate per incrementare le proprie scorte di beni acquistandoli prima dell’introduzione generalizzata dei dazi.
Il risultato è che ora i magazzini sono pieni e gli acquisti fermi e si spiega come la Federal Reserve di Atlanta abbia elaborato la previsione del crollo del prodotto interno lordo degli Stati Uniti del 2,8%.
Il dato (proiettato su base annua) si riferisce al primo trimestre del 2025 e la banca centrale specifica che non si tratta di un proprio giudizio, ma di un indice generato da un modello che tiene meccanicamente conto degli andamenti su consumi, investimenti e così via.
 

Risorse e investimenti di portata epocale e una economia zoppicante

Una tale situazione di partenza, per essere invertita, richiede investimenti di portata epocale, eccessivi anche per una potenza come quella Americana, la cui economia non è neppure così solida.
Anzi, essa è oggettivamente in crisi con un deficit di bilancio, per l’anno fiscale 2024, che salirà a circa 1.915 miliardi di dollari pari a circa il 6,7% del PIL.
Verrà dunque superato il deficit pubblico dell’anno passato che si era attestato a 1.695 miliardi di dollari e sarà stabilito un nuovo record mentre, senza correzioni, il debito nei prossimi dieci anni è destinato a raggiungere i 50.700 miliardi di dollari.
 

“MAGA” e “America First”

L’ambizione “MAGA” di Trump non può partire da premesse peggiori.
“America First” dipende dall’indispensabile incremento della produzione interna, nei tempi necessari a non provocare un crollo dell’economia americana.
Per farlo bisogna incentivare le imprese americane a svilupparsi e invogliare quelle estere a insediarsi nel territorio americano.
Al netto di altre problematiche, la localizzazione industriale-produttiva-commerciale negli Stati Uniti consente alle imprese estere, che avessero in questi ultimi il principale mercato di sbocco, di sottrarsi ai dazi mantenendo così le rispettive quote di mercato in America.

La tentazione di una delocalizzazione negli Stati Uniti è forte anche in Italia.
Illy Caffè e Pirelli stanno valutando la situazione, si legge, che, per imprese di quelle dimensioni, è come dire che manca solo la firma dell’Amministratore Delegato su un progetto già perfettamente confezionato.

Anche le imprese più solide hanno però bisogno, per delocalizzarsi o estendere la propria produzione all’estero, in questo caso negli States, di ingenti risorse finanziarie per realizzare gli insediamenti industriali e commerciali.
Per ottenere questa migrazione in America delle imprese dislocate all’estero, rendendo concreti gli slogan di Trump, servono quindi incentivi statali, finanziamenti e agevolazioni di ogni tipo, senza contare quanto necessario per favorire lo sviluppo delle stesse imprese statunitensi.
 

Da soli gli Stati Uniti potrebbero non farcela

Serve l’apporto di risorse fresche da spendere in sovvenzioni alle imprese sparse nel mondo, per indurle a localizzarsi nel territorio americano.
Bisogna allora attrarre nuovi capitali, convincere il mondo che l’America sarà il paradiso terrestre per le imprese e per chi fa finanza, cosa certamente non facile per un paese che ha quasi 2.000 miliardi di deficit di bilancio, che non ha una attività manufatturiera sviluppata come anche la produzione di macchine e macchinari industriali, nel quale le imprese leader producono servizi che certamente esportano in tutto il mondo, ma sono anche delocalizzate in mille paesi, ciascuno dei quali assorbe un po' della ricchezza complessiva da esse prodotta attraverso le imposte locali (balzelli, come le chiama Trump).
 

L’America prima di tutto e tutti

Perché l’America diventi grande di nuovo questo non può essere.
Tutti devono capire, con le buone o con le cattive, che l’America deve venire prima di tutto e tutti.
Gli accordi internazionali passati, per sopravvivere, o quelli futuri, per nascere, dovranno essere di vantaggio per gli Stati Uniti.
L’accordo preso, il convincimento e le aspettative create possono essere disattese in maniera talmente sfrontata che addirittura la Corte Suprema Americana, ampiamente Trumpiana, ha respinto la richiesta di Trump di congelare ingentissimi aiuti esteri approvati dal Congresso, obbligandolo a riavviare l’erogazione di 2 miliardi di dollari di finanziamenti deliberati.
Trump e il suo board di multimiliardari non si farà certo intimidire da così poco, tant’è che gli analisti sono concordi nell’individuare le prossime mosse di Trump e di come egli sarà in grado di coniugare la politica dei dazi con quella del ricatto.
In realtà è semplicissimo: se non vuoi subire i dazi sulle tue esportazioni pagami. Compera i titoli del mio debito pubblico con scadenza centenaria e a tassi di interesse ridicoli.
Potrò così risanare, con i tuoi soldi, il mio deficit e finanziare il mio sviluppo.

Ecco allora la quadratura del cerchio.
Soldi forzosamente incassati in cambio della promessa di non attuare la minaccia di imporre i dazi, ma non solo.
A ben guardare lo stesso scambio potrebbe riguardare le terre rare, l’annessione della Groenlandia, del Canale di Panama, l’abbandono della Nato, dell’OMS, dell’aiuto ai paesi invasi, sostenuti fino a oggi…
 

I conti senza l’oste

Attenzione però a “non fare i conti senza l’oste”, come si dice, che in questo caso è la Cina.
Paziente, silenziosa, apparentemente distaccata, ma pronta a scattare per azzannare l’America che Mao Tse Tung, capo dell’Esercito di Liberazione popolare cinese e futuro presidente della Cina, nel 1946 definì “Una Tigre di Carta”.

 

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© Questo articolo, a firma di Attilio Sartori, è apparso per la prima volta sul Blog LA MOSSA GIUSTA.
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