Rivalutazione beni d'impresa: un'agevolazione? Forse no


La nuova “rivalutazione dei beni d’impresa” nei bilanci 2020

Il “Decreto Agosto” (D.L. n. 104/20) introduce una nuova rivalutazione che può essere eseguita nei bilanci relativi all’esercizio 2020.
La rivalutazione può avere rilevanza esclusivamente civilistica oppure anche fiscale, mediante il versamento di un’imposta sostitutiva del 3% dei maggiori valori attribuiti ai beni rivalutati.
 

Cosa vuol dire ‘rivalutazione’?

In campo economico il termine ‘rivalutazione’ indica l'aumento del valore nominale di un capitale nel corso del tempo, in virtù di automatismi (ad esempio la rivalutazione del trattamento di fine rapporto, previsto dall’ Art. 2120 del Codice Civile) o dell'andamento di determinati indici o a seguito di disposizioni di legge particolari.
Applicata al bilancio di esercizio, vuol dire aggiornare a quello attuale il valore di elementi patrimoniali i quali, per essersi formati tempo addietro, possono non risultare più iscritti a valori correnti.
 

Per quali ragioni ricorrere alla ‘rivalutazione’?

L’Art 2423 c.2 del Codice Civile esattamente afferma: “Il bilancio deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio”.
Per rappresentazione veritiera e corretta si intende che le voci di bilancio devono essere basate su dati veri ed esprimere valutazioni condotte secondo i criteri di legge e quelli tecnico-professionali.
Chiarezza significa che il bilancio deve essere, non solo veritiero e corretto, ma anche esposto in modo tale da consentire al lettore di comprendere la situazione patrimoniale e finanziaria della società.
 
L’obbiettivo è quindi che i dati di bilancio siano “veri” e non lo sarebbero se, ad esempio, i crediti verso i clienti non venissero svalutati in ragione della loro reale possibilità di incasso, se la giacenza di magazzino (le rimanenze) esprimesse un numero di articoli non rispondente al reale o per essi fosse stata assegnata una valorizzazione inferiore o superiore al loro possibile corrispettivo di realizzo, se le immobilizzazioni, ovvero i cespiti, in particolare quelli materiali, avessero un valore diverso da quello di mercato o se le partecipazioni in altre imprese fossero iscritte a un valore diverso da quello in grado di esprimere la consistenza patrimoniale di queste ultime.
 

Dacci oggi il nostro bilancio quotidiano

Allora la rappresentazione veritiera e corretta riguarda solo chi ha un bilancio da redigere?
Non solo.
Tutti noi redigiamo periodicamente un bilancio.
Magari non ce ne rendiamo conto, ma lo facciamo anche quotidianamente, per esempio per le entrate e le spese di casa, quando dobbiamo decidere se effettuare o meno un acquisto, comperare un televisore, ristrutturare il bagno o riarredare il salotto, cambiare l’auto, pianificare un viaggio.
Già tra le mura di casa nostra ci poniamo il problema se la spesa che vorremmo sostenere sia adeguata alle nostre entrate, se ciò che desideriamo acquistare non sia troppo costoso, in breve, se quello che abbiamo in mente di fare ce lo possiamo permettere.
Questo equivale, non solo a fare un bilancio, ma anche a redigere una proiezione economica e finanziaria a medio termine, nel momento in cui decidessimo di posticipare o anticipare una certa spesa in base alle diverse aspettative in termini di entrate e uscite.
 
Certamente per farlo ci baseremmo su dati reali, su aspettative vere di entrate, uscite, costi, entità delle spese che saremmo disposti a sostenere.
 
Per un imprenditore e un professionista è la stessa cosa e non dipende assolutamente dal regime fiscale di appartenenza.
Il bilancio è alla base delle aspettative di sopravvivenza e crescita della propria impresa o sviluppo della propria professione: tutti lo facciamo, magari semplicemente a mente o su un pezzo di carta che poi mettiamo in tasca.
Cambia la modalità di redigerlo, che può essere più o meno dettagliata e precisa, a seconda che si avvalga o meno di una contabilità giornaliera, che traduce gli accadimenti aziendali in valori che troveranno il loro momento di sintesi nel bilancio di periodo.
 
Su tutto prevale una condizione, che il bilancio, comunque redatto, sia “reale”, ovvero in grado di rappresentare in modo veritiero e corretto il patrimonio del quale si dispone, la situazione finanziaria e la possibilità e misura dei guadagni attesi.
 

Il bilancio sostenibile

Sia nel caso delle famiglie che in quello delle imprese, il bilancio è indispensabile per avere contezza che ciò che si fa ogni giorno, con la propria famiglia o la propria impresa o nello svolgimento di una attività professionale, sia sostenibile.
 
Sostenibilità vuol dire possibilità di far fronte alle spese con le entrate, ai costi con i ricavi, a garanzia della sopravvivenza personale e di quella dell’azienda o professione.
La possibilità di sopravvivenza di un’azienda si esprime con l’espressione “continuità aziendale”, cioè l’essere in grado, (per l’azienda in questo caso), di far fronte puntualmente alle proprie obbligazioni con i propri incassi, anche in presenza di circostanze inaspettate e avverse.
 

La rivalutazione nel “Decreto Agosto” e le imprese

Il “Decreto Agosto” prevede per le imprese una norma e una procedura specifica per effettuare la rivalutazione, ovvero riassegnare il valore attuale a poste di bilancio esposte a valori obsoleti e, come tali, in grado di alterare la rappresentazione veritiera e corretta che il bilancio deve dare dell’azienda.
 

Bilancio utile a chi compra e a chi vende

Ma chi è così interessato a che il bilancio dia dell’azienda una rappresentazione veritiera e corretta?
In realtà tutte le relazioni commerciali partono dal presupposto che le parti possano esprimere un giudizio reciproco di affidabilità e continuità.
 
Se si ordinasse della merce, ci si preoccuperebbe che fosse di qualità corrispondente alle aspettative, che i tempi di consegna venissero rispettati, che il fornitore fosse in grado di rispettare le dilazioni di pagamento concesse, così da essere sicuri che questi non si presenterà alla porta pretendendo di essere pagato subito perché in crisi finanziaria.
Nei suoi confronti si faranno inoltre delle indagini volte a comprenderne la solidità aziendale, in modo da avere certezza che la sua azienda sopravvivrà al contratto di fornitura sottoscritto, ovvero sarà in grado di onorarlo nel tempo, in assenza di situazioni fallimentari abilmente occultate, ma imminenti.
 
Ugualmente, se si facesse una vendita, ci si preoccuperebbe dell’affidabilità del cliente, ovvero di acquisire la ragionevole certezza che questi sia in grado di adempiere alle proprie obbligazioni in maniera regolare e puntuale.
Si cercherebbe di accertare la sua solidità patrimoniale, perché concedergli dilazioni di pagamento vorrebbe dire “fargli da banca” e, qualora fosse sommerso dai debiti, probabilmente non si riuscirebbe a incassare il corrispettivo della fornitura, che spesso gli sarà già stata fatta o quanto meno prodotta.
 

Bilancio: strumento di valutazione reciproca tra imprese

Lo strumento per accertare quanto sopra è il bilancio.
Le valutazioni che si possono fare sul bilancio offriranno infatti la rappresentazione della realtà aziendale con la quale si verrà in contatto, necessaria a permettere che le scelte commerciali operate siano quanto meno prudenti.
 
Se è chiaro che la conoscenza del bilancio è premiante nell’indirizzare gli imprenditori a sviluppare o meno rapporti economici reciproci, altrettanto lo è per la possibilità di attingere alle fonti di finanziamento, bancarie in primis, di cui normalmente un’impresa necessita.
 

Banche: le prime osservatrici dei bilanci

In passato gli Istituti di credito, capillarmente diffusi sul territorio, si avvalevano della conoscenza personale per valutare l’affidabilità di un soggetto da finanziare.
Ora tutto è cambiato.
In particolare la centralizzazione degli organismi che deliberano gli affidamenti ha fatto sì che la misurazione della capacità di credito di un’impresa da finanziare avvenga al di fuori di ogni sfera di conoscenza personale o ambito territoriale, per affidarsi a parametri oggettivi, ricavabili unicamente da un bilancio veritiero e corretto.
 

Centralità del bilancio per le imprese

Il bilancio è quindi elemento centrale per l’azienda e con esso la sua veridicità, in quanto si pone al centro della conduzione commerciale, economica e finanziaria dell’azienda, quale strumento indicatore della qualità del comparto produttivo, organizzativo amministrativo e contabile dell’azienda stessa.
 
Sul bilancio si costruiscono le previsioni di sviluppo e resilienza dell’impresa, ovvero si misurano le sue capacità economiche future, quest’ultime accompagnate da quelle finanziarie, perché non può esservi sviluppo laddove un’impresa non sia in grado di pianificare i propri cicli economici e finanziari.
 
Questo vale solo se il bilancio è vero e reale.
Per questo è necessario un continuo processo di aggiornamento al dato reale dei suoi valori economici e, per quello che più ora ci interessa, patrimoniali.
 

Rivalutazione arbitraria del bilancio, no grazie

Si può agire in libertà nel processo di rivalutazione dei valori patrimoniali nel bilancio aziendale?
Assolutamente no.
Il processo di aggiornamento non può essere lasciato alla libera iniziativa di chi redige il bilancio.
Un imprenditore non può farsi una passeggiata in azienda e concludere che quel determinato macchinario abbia certamente un valore di mercato più alto di quanto risulti in bilancio e pretendere che l’impiegato amministrativo proceda nella rivalutazione dello stesso.
Se così fosse saremmo in una situazione di totale anarchia in cui la veridicità delle poste di bilancio sarebbe rimessa al semplice apprezzamento dell’imprenditore stesso o del suo amministratore, al di fuori di ogni regola e quindi priva di garanzia di veridicità.
 
Ogni processo rivalutativo volto ad aggiornare i valori patrimoniali in bilancio è possibile solo in presenza di leggi dello Stato, emanate ad hoc, che definiscano modalità e termini della rivalutazione, fissandone i limiti.
Lo scopo è quello di sottrarre al puro arbitrio un’operazione così delicata, che incide direttamente sull’affidabilità del bilancio e quindi sulla possibilità di giudizio di chiunque voglia basarvisi per prendere una decisione di natura finanziaria o commerciale.
 

“Decreto Agosto”: la norma vs l’arbitrio

La rivalutazione prevista e disciplinata nel “Decreto Agosto” è proprio ciò di cui stiamo parlando.
È la risposta all’imprescindibile necessità di evitare ogni forma di arbitrio in capo a una rivalutazione necessaria a restituire, a bilanci infarciti di valori obsoleti, la loro capacità di fornire una rappresentazione veritiera della situazione economica e patrimoniale dell’impresa.
 

Come procedere alla rivalutazione?

Sul piano dell’applicazione pratica, si tratta di una norma elementare, che non necessita di analisi descrittiva.
Sono le motivazioni e le implicazioni determinate dall’adesione a un processo di rivalutazione dei beni aziendali che richiedono attenzione.
Si tratta di elementi di non immediata comprensione e va ricordato innanzitutto che la legge statale non ammette la rivalutazione di tutti i beni aziendali, ma la limita ad alcune specifiche categorie, perché, in linea di principio, tutti i beni appartenenti al patrimonio aziendale possono essere oggetto di riallineamento al loro valore reale.
 

Distinzione e classificazione delle principali categorie di beni aziendali

Come procedere alla rivalutazione?
La legge limita la possibilità di rivalutazione unicamente a tre categorie di beni aziendali:
  1. immateriali
  2. materiali
  3. partecipazioni in altre imprese purché immobilizzate.
 
I beni immateriali sono quelli “intangibili”, che non hanno una loro consistenza fisica, ma appartengono comunque al patrimonio aziendale: per esempio marchi e brevetti, software, spese di ricerca e sviluppo, etc.
 
I beni materiali sono di ben più facile individuazione in quanto “tangibili” e come tali visibili, più o meno ingombranti, pesanti, numerosi.
 
Le partecipazioni in altre imprese derivano dalla sottoscrizione - di una quota o della totalità - del Capitale sociale di un’altra impresa ovvero dall’acquisto della stessa.
Per effetto di questa operazione l’impresa si ritrova, come si suol dire, “ad avere in pancia” una fetta di un’impresa terza, partecipandone alla conduzione e all’utile.
 
I beni materiali sono classificabili in due grandi categorie:
  1. beni immobili, ad esempio il capannone aziendale
  2. beni mobili, ad esempio gli impianti, i macchinari, le attrezzature di ogni specie, gli arredi, l’hardware, gli automezzi, etc.
 
Tutti i beni aziendali riconducibili alle tre categorie dei beni immateriali, materiali e partecipazioni immobilizzate hanno in comune la caratteristica di essere “durevoli”, ovvero destinati a contribuire alla produzione dei ricavi per più esercizi.
Si parla di essi come di “Beni a fecondità ripetuta”, espressione che ben rappresenta la loro idoneità a essere utilizzati nel tempo, di esercizio in esercizio, sempre contribuendo alla formazione dei ricavi.
 
Il sostenimento della spesa per la loro acquisizione si definisce “investimento”, a differenza della spesa per un bene corrente, destinato a generare un ricavo immediato e non destinato a rigenerarsi nel tempo, per la quale utilizziamo l’espressione “costo di acquisto”.
Un costo rappresenta quindi un impegno finanziario per l’acquisto di merci, prodotti e servizi, destinati a sostenere l’andamento quotidiano della gestione operativa aziendale, mediamente generatrice, giorno dopo giorno, (si spera), di un utile operativo, mentre un investimento rappresenta un impegno assunto per acquistare un bene durevole, il cui contributo alla generazione di ricavi si ripete negli anni.
 

Quali sono le domande che l’imprenditore deve porsi nel processo di rivalutazione?

Perché mai i beni che il “Decreto Agosto” ci consente di rivalutare dovrebbero aver perso il loro valore, al punto che il bilancio non rappresenti più un indicatore reale?
 
I beni materiali e immateriali, partecipando al processo produttivo anno dopo anno, finiscono per perdere il loro valore.
Questo avviene essenzialmente per due motivi:
  1. l’inevitabile usura e invecchiamento
  2. l’obsolescenza tecnica.
 
Un bene immateriale come un software diventa un po’ alla volta obsoleto perché superato da altri più evoluti; un brevetto perde valore perché nel tempo è stato progressivamente “copiato”, malgrado le tutele che la brevettazione dovrebbe assicurare, oppure semplicemente perché ha esaurito la sua funzione.
 
Più facile è comprendere questo processo di invecchiamento parlando dei beni materiali.
Il loro utilizzo nella generazione di ricavi ne determina l’usura e l’invecchiamento e con esse la perdita di valore.
 
Proprio perché sono destinati a essere utilizzati negli anni e a contribuire nel generare ricavi nel tempo, il loro invecchiamento deve essere imputato a bilancio, per quote.
Mentre un costo sostenuto partecipa solo al risultato dell’esercizio di sua manifestazione, i beni oggetto d’investimento (materiali e immateriali) vi partecipano in misura pari a una frazione del costo per essi sostenuto, ovvero per quote di ammortamento.
 
L’imprenditore deve quindi fare una proiezione e porsi le seguenti domande:
  1. per quanti anni questo bene parteciperà al processo produttivo della mia azienda?
  2. al termine di questo periodo avrà o meno un valore residuo ovvero sarà rivendibile, oppure dovrà essere semplicemente distrutto?
 
A seconda delle risposte, definirà un “piano di ammortamento”, ovvero il periodo di tempo sul quale spalmare per quote il costo di acquisto del bene, determinando per questa via le “quote di ammortamento” del bene stesso, che concorreranno, anno per anno, alla formazione del risultato di esercizio.
 

Cosa succede al termine del piano di ammortamento?

Al termine di un piano di ammortamento correttamente impostato il bene non dovrebbe valere più nulla, essere destinato alla demolizione (se bene materiale) o “cancellato/non più considerato” (se bene immateriale).
 
La tecnica contabile adottata, che di anno in anno consente di evidenziare il bene nel suo valore netto (costo di acquisto meno sommatoria degli ammortamenti operati anno per anno), manifesterebbe per lo stesso un valore pari a zero nel bilancio.
In pratica significa che il bene, nel bilancio, finisce per non avere più alcuna rilevanza: tecnicamente un valore pari a zero, che in termini patrimoniali non esiste.
Esisteva all’inizio, nel suo valore pieno al momento dell’acquisto, che è poi andato scemando di anno in anno per effetto degli ammortamenti, ovvero della frazione annuale di deperimento dovuto all’utilizzo e all’obsolescenza tecnica.
 
Se i beni, fisicamente, continuassero a essere presenti e utilizzabili, oppure avessero un valore di mercato che ne consentisse la vendita, significherebbe che il piano di ammortamento era errato sin dall’inizio.
Sarebbero stati sottostimati l’usura e l’obsolescenza, assegnando ai beni una vita utile inferiore a quella reale.
Il loro permanere in azienda, la continuazione nel loro utilizzo, la conservazione di un valore di mercato, ne sarebbero la testimonianza.
 

Il “Decreto Agosto” permette di rimediare ai piani di ammortamento errati

La rivalutazione consentita dal “Decreto Agosto” consente di porre rimedio a errori di questo genere, facendo riemergere, nel bilancio, la quota parte residua del valore iniziale del bene, che l’applicazione del piano di ammortamento errato ha indebitamente azzerato.
 

Come procedere?

La circostanza che il bene abbia conservato, in termini reali, un proprio valore, ma che questo non trovi rappresentazione in bilancio, richiede un riallineamento.
Il valore residuo del bene rappresenta infatti una “ricchezza” dell’azienda che va rimessa in evidenza.
 
Applicando la legge si opera pertanto un processo di “patrimonializzazione” dell’azienda, che si realizza con l’emersione in bilancio del reale valore di ciò che possiede.
L’azienda torna, in questo modo, a dare la miglior rappresentazione di se stessa sul piano patrimoniale.
 
Facciamo un piccolissimo esempio numerico, elementare ma indispensabile.
 
Secondo un’ipotesi semplificata al massimo si potrebbe immaginare che le attività delle quali disponesse l’azienda (esposte all’attivo del suo stato patrimoniale) fossero costituite unicamente:
  1. dal valore delle proprie immobilizzazioni per 150
  2. dal valore dei propri crediti verso i clienti per 100
  3. dalle disponibilità bancarie per 50.
 
Per finanziare queste attività (perché i beni sono stati acquistati mettendoci del denaro e i crediti verso i clienti impegnano risorse a loro favore, che si libererebbero se solo pagassero “pronta consegna”) l’azienda potrebbe ricorrere (esposte al passivo del suo stato patrimoniale) unicamente:
  1. capitale sociale per 150
  2. versamenti a fondo perduto per 100
  3. debiti verso fornitori per 50.
 
Il Capitale sociale e i versamenti a fondo perduto (150 +100) = 250 costituiscono il Patrimonio netto, ovvero il debito che l’impresa ha verso i propri titolari per i mezzi che questi hanno apportato di tasca propria. Sono la ricchezza da essi apportata in azienda e recuperabile dagli stessi solo in sede di cessione o liquidazione dell’azienda.
 
 

Tabella 1)

Lo stato patrimoniale dell’impresa in esame si presenterebbe, in sintesi, come segue:
 
                    Attivo Patrimoniale Passivo patrimoniale
Immobilizzazioni nette 150 150 (*) Capitale Sociale
Crediti vs Clienti 100 100 (*) Riserve Utili es. precedenti
Disponibilità bancarie 50 50 Debiti vs Fornitori
Totale Attivo 300 300 Totale Passivo
 
  • La sommatoria di Capitale Sociale e Riserve, nell’esempio, costituisce il Patrimonio netto
 
Procedendo nell’esempio, a questo punto si potrebbe immaginare che l’imprenditore, accompagnato da un perito, facesse un giro all’interno del proprio capannone industriale e individuasse alcuni macchinari ancora in uso e uno in disuso, ma che volesse venderlo avendo esso ancora un valore di mercato.
L’esempio prevede, però, che questi beni avessero, in bilancio, valore zero, a causa di un piano di ammortamento errato sin dall’inizio, ovvero non aggiornato nel tempo.
Tuttavia i macchinari sono ancora presenti e funzionanti e proprio per questo il perito assegna loro un valore di 60 e a quello da vendere un valore di 40 e così per un totale di 100.
 

Tabella 2)

Ecco allora il nuovo Stato Patrimoniale a rivalutazione effettuata:
 
Attivo Patrimoniale Passivo patrimoniale
Immobilizzazioni nette 150 150 (*) Capitale Sociale
Rivalutazioni operate 100 100 (*) Riserve da rivalutazione
Crediti vs Clienti 100 100 (*) Riserve Utili es. precedenti
Disponibilità bancarie 50 50 Debiti vs Fornitori
Totale Attivo 400 400 Totale Passivo
 
Si vede come il Patrimonio netto (*) sia passato dai precedenti 250 a 350.
Il rapporto tra i Debiti verso Fornitori e il Patrimonio netto (come dire quello tra i soldi dei terzi messi in azienda e quelli messi dai titolari) passa dal 20% (50/250) al 15% (50/350).
 
L’operazione di rivalutazione ha quindi messo in evidenza una maggiore ricchezza che è confluita nel Patrimonio netto dove trova la propria rappresentazione.
L’impresa ha perciò migliorato la propria patrimonializzazione e con essa l’immagine di se stessa presso i terzi.
 

Vantaggi della patrimonializzazione operata con la rivalutazione

Un primo risultato è che l’incidenza della ricchezza propria dell’azienda è percentualmente cresciuta rispetto ai debiti che, in un certo senso, rappresentano la ricchezza degli altri (dei fornitori, in questa ipotesi), apportatavi temporaneamente (i fornitori dopo un certo periodo di tempo vogliono rientrare dei propri crediti).
 
Un secondo risultato è il passaggio da un rapporto tra Patrimonio netto e Debiti da 7 a 1 a 4 a 1, effetto a impatto estremamente positivo nella valutazione del merito creditizio aziendale.
 
Si potrebbe dire che la prima cosa che le banche vanno a esaminare nel bilancio di un’azienda è a quanto ammonti il Patrimonio netto rispetto al totale dei debiti.
Più alto è il primo e bassi i secondi, più l’azienda è patrimonialmente sana.
Non solo, la misura del Patrimonio netto esprime senza ombra di dubbio quanto l’imprenditore sia disposto a investire nella propria azienda.
Uno stato patrimoniale limitato a un risicato capitale sociale, in assenza di versamenti a fondo perduto operati dall’imprenditore o riserve per utili maturati, ma non prelevati, rappresenta per la banca il peggiore degli incubi, che equivale a pensare: “questo soggetto non sa fare l’imprenditore o lo vuole fare solo con i soldi degli altri, senza rischiare assolutamente nulla del suo.”.
 
Sul piano del bilancio e della sua capacità di dare una rappresentazione veritiera e corretta della consistenza economica e patrimoniale dell’impresa questo è il vantaggio più importante che la rivalutazione consentita dalla Legge con il “Decreto Agosto” consente.
 

Per il merito creditizio la rivalutazione non basta

Molti soggetti che operano con le banche per ottenere credito in favore delle proprie imprese clienti, pretendono di sostenere che basti rivalutare e immediatamente il merito creditizio aumenterà, consentendo all’azienda di accedere al credito bancario senza problemi.
Questi soggetti operano da “imbonitori” presentando le banche come fossero popolate da funzionari creduloni ai quali basta ricevere un bilancio “abbellito” per aprire le porte del credito.
Non è così, anzi le banche pongono estrema cura nell’analizzare i bilanci delle imprese da affidare, valutandone con attenzione il merito creditizio.
Il “deliberante”, colui che ha l’ultima parola relativamente alla possibilità di affidamento di una certa pratica, al parere del quale si allinea il Consiglio di Amministrazione della banca nel deliberare la concessione dell’affidamento, non si lascia certo incantare da un bilancio “abbellito” da una rivalutazione formale.
 

Criteri di realtà e domande per la rivalutazione

La rivalutazione deve viceversa rispondere a criteri di realtà estremamente precisi e ad altrettante domande.
Perché rivaluto?
Quali sono le prospettive di utilizzo nel tempo del bene sul quale si è proceduto alla ridefinizione in aumento del valore?
Esiste, per l’azienda, la capacità futura di recuperare, in termini di maggiori ammortamenti, la rivalutazione operata?
La continuità aziendale non sarà compromessa da questi maggiori oneri, come dire, non saranno i maggiori ammortamenti da sostenere in futuro a mettere in crisi l’azienda?
Questi e altri sono i quesiti che il deliberante si porrà e sottoporrà all’imprenditore.
 
Si tratta di considerazioni fondamentali non solo per la banca ma, e direi in primis, per l’imprenditore.
Se egli avesse rivalutato il valore di un bene aziendale, su quello dovrà calcolare in futuro ammortamenti non previsti nel budget economico/finanziario, oppure maggiori, rispetto al previsto, se il bene rivalutato fosse ancora in ammortamento.
Ma l’azienda avrà la capacità economica per sopportare questi maggiori ammortamenti senza compromettere la propria marginalità?
 

Rischi di una rivalutazione non rispondente alla realtà

Se si è fatta una rivalutazione solo per migliorare il merito creditizio si rischia moltissimo.
Se da un lato è la continuità aziendale a essere messa in discussione a causa del maggior peso di ammortamenti magari non sostenibili, dall’altro si rischia di provocare una situazione finanziaria da sovraindebitamento.
Se infatti la banca procedesse all’apertura di una nuova linea di credito in ragione di un bilancio solamente “abbellito” grazie a una rivalutazione di facciata e, come tale, non rispondente alla situazione reale, l’azienda potrebbe facilmente trovarsi a non essere in grado di generare flussi finanziari sufficienti a rientrare del maggior debito accumulato non in ragione di un progetto di sviluppo, ma di un maldestro tentativo di tappare disavanzi generati in passato e ormai non più colmabili.
 
Le motivazioni del “perché si è rivalutato” vanno indicate puntualmente nella Nota integrativa che è parte del bilancio al pari dello Stato patrimoniale, del Conto economico e del Rendiconto finanziario.
Nella Nota integrativa gli amministratori non possono certo acclarare di aver rivalutato solo perché esiste una norma che consente di farlo.
Devono, al contrario, dettagliare le motivazioni reali che hanno fatto dichiarare che un bene ha una vita residua maggiore di quella prevista, da cui deriva la rivalutazione operata.
Devono indicare il perché dell’entità della rivalutazione e dettagliare le conseguenze di natura economica e patrimoniale che il bilancio subisce, rispetto a quello che sarebbe stato in assenza delle rivalutazioni.
Devono fornire una giustificazione precisa della circostanza che la scelta di rivalutare non abbia compromesso la continuità aziendale, producendo analisi prospettiche dalle quali emerga che la loro asserzione risponde a verità.
 

Vantaggi fiscali connessi al rispetto delle regole civili

Come già nella rivalutazione prevista dalla Legge di Bilancio 2020 e in quelle precedenti, la rivalutazione in applicazione del “Decreto Agosto” prevede dei vantaggi fiscali, ovviamente connessi con il corretto rispetto delle regole civili, in quanto una ingiustificata rivalutazione, sganciata dalla situazione reale, comprometterebbe la corretta e veritiera rappresentazione della situazione patrimoniale dell’azienda.
Questo esporrebbe l’amministratore, non solo alle conseguenze civili in presenza di un bilancio per questa via “falso”, ma anche a quelle da parte dell’Agenzia delle Entrate che contesterebbe i benefici fiscali derivanti dalla rivalutazione stessa.
 
L’aspetto civile e quello fiscale vanno di pari passo ed entrambi si fondano sul principio di “realtà”.
 

Perizia di stima non obbligatoria, ma consigliata

La norma non richiede, come elemento obbligatorio ai fini della rivalutazione, alcuna predisposizione di perizia giurata di stima dei beni, ma si deve tuttavia necessariamente fornire una rappresentazione veritiera e corretta nell’individuazione di un valore massimo di rivalutazione, pari al valore recuperabile dall’immobilizzazione oggetto di rivalutazione, già all’interno del bilancio 2020 nel quale la rivalutazione troverà la propria manifestazione contabile.
Sempre nel rispetto del principio di rappresentazione veritiera e corretta della situazione aziendale, non è da escludere che potrà essere necessario operare delle svalutazioni negli esercizi successivi, qualora si evidenziasse la non corretta rivalutazione operata per eccesso.
 
In assenza di idoneo set documentale a supporto delle valutazioni operate e in caso di importi di rilevante ammontare si consiglia, in via prudenziale, di richiedere comunque una perizia di stima dei valori stessi.
 

Come funziona la norma sul piano civile e fiscale

La norma prevede che la rivalutazione avvenga nel bilancio al 31 dicembre 2020 per i beni d’impresa e le partecipazioni risultanti dal bilancio al 31 dicembre 2019.
La rivalutazione può essere effettuata distintamente per ciascun bene, cioè è possibile rivalutare un solo immobile e non tutti gli immobili nella proprietà aziendale, ovvero un singolo cespite o una singola partecipazione finanziaria.
 
La rivalutazione potrà avere rilevanza:
  • solo civilistica
  • civilistica e fiscale.
 
La differenza è importantissima in quanto, nel caso di rivalutazione solo civilistica nulla sarà dovuto, ma i maggiori valori iscritti in bilancio avranno rilevanza unicamente civile, ovvero quella di riconsegnare al bilancio il suo compito di dare dell’azienda una rappresentazione veritiera e corretta.
Questo significa che la rivalutazione, sul piano fiscale, è come non esistesse.
Pertanto si creerà quello che viene definito un “doppio binario”.
 
Sul piano civile si assumeranno a riferimento i nuovi valori, per il calcolo degli ammortamenti, la determinazione dei guadagni e delle perdite (plusvalenze e minusvalenze) in caso di cessione dei beni rivalutati etc.
 
Su quello fiscale si continuerà ad assumere i valori ante-rivalutazione e così per il calcolo degli ammortamenti, delle plusvalenze e minusvalenze in caso di cessione dei beni rivalutati etc.
 
Perché la rivalutazione abbia un riconoscimento anche fiscale si dovrà corrispondere, sulla riserva di rivalutazione (Tabella 2) di cui in precedenza), una imposta pari al 3% (3, nell’ esempio di Tabella 2).
L’effetto anche fiscale decorrerà dall’esercizio 2021.
Da quest’anno si potranno quindi calcolare i maggiori ammortamenti sui valori rivalutati e determinare, a parità di tutte le altre condizioni, un minor utile fiscale.
 
In pratica
  • in presenza di una rivalutazione di 100
  • operata su un bene che si ammortizza al 10%
  • si potrà avere un maggior ammortamento per 10 che ridurrà l’utile di pari importo generando un risparmio di imposta di 27,90 che, al netto di quanto speso per l’affrancamento fiscale della riserva di rivalutazione, consentirà di avere un risparmio netto, in termini di imposte, di 24,90.
Quanto sopra a patto che l’impresa sia in grado di esprimere utili e quindi abbia interesse in una pianificazione fiscale che porti a ridurre le imposte dovute.
 
Analogamente per quanto riguarda i guadagni o le perdite che dovesse subire per effetto della cessione di un bene rivalutato.
Ipotizzando
  • che si disponesse di un bene che avesse un valore netto in bilancio di 100
  • che su questo si operasse una rivalutazione di 50, elevando così il valore netto del bene a 150
  • che si volesse rendere la rivalutazione fiscalmente rilevante pagando il 3% del saldo di rivalutazione ovvero 1,50 (50 * 3% = 1,50)
  • che si cedesse tale bene a 200.
 
Ecco che
  • ante-rivalutazione, il guadagno tassabile (plusvalenza) sarebbe di 100 (200-100 =100) con un carico fiscale di 24 (100 * 24% - imposta IRES - = 24)
  • post-rivalutazione e affrancamento fiscale della riserva, il guadagno tassabile (plusvalenza) sarebbe di 50 (200-150 = 50) con carico fiscale di 12 (50 * 24% - imposta IRES - = 12) cui sommare l’imposta di affrancamento di 1,5 e così per un totale di 13,5.
Il vantaggio è evidente, ma ciò non toglie che esso sarà rilevante unicamente nell’ipotesi in cui la plusvalenza fosse significativa e vi fosse la reale intenzione di procedere nella vendita del bene.
 

Quali sono i beni che meriterebbero una rivalutazione?

Sempre nel rispetto della condizione civilistica del principio di veridicità del bilancio, va detto che alcune categorie di beni possono rientrare più facilmente nel novero di quelli rivalutabili.
 
I beni acquisiti dall’azienda al termine di un contratto di leasing e come tali riscattati.
Se ad esempio pensassimo a un autocarro del valore di €. 250.000 che fosse stato acquisito in leasing, al termine della locazione esso sarebbe stato riscattato e il valore di riscatto iscritto in bilancio, normalmente in misura pari all’1% del suo valore originario, sarebbe di €. 2.500.
In questo caso sarebbe praticamente certo che il valore del bene, in termini reali, è superiore ed è quindi opportuno rivalutarlo, sia in ipotesi di cessione (minor plusvalenza tassabile), che di continuazione nel suo utilizzo (maggiori ammortamenti, maggiore soglia per la deduzione nell’esercizio delle spese di manutenzione e riparazione).
 
Gli immobili, se solo, dopo lo “scoppio” della bolla immobiliare, ancora esprimessero un valore di mercato maggiore del valore di acquisto o costruzione esposto in bilancio.
 
Le partecipazioni in altre imprese, iscritte in bilancio a valori molto bassi, al limite al valor nominale del loro capitale sociale, ma ora molto maggiori in ragione del loro sviluppo sul mercato e dell’avviamento acquisito.
 
I brevetti che, acquistati per poco in quanto in quel momento inutilizzati, avessero visto il loro valore incrementarsi a motivo del loro utilizzo.
 
Si tratta di esempi che potrebbero essere molto più numerosi, ma che rappresentano comunque alcune situazioni in cui l’opportunità di procedere nella rivalutazione è maggiore.
 

Valore derivante dalla riserva in sospensione di imposta, se affrancata

Vi è però un ulteriore valore, conseguente alla rivalutazione, che può richiedere il suo affrancamento e il pagamento, quindi, di un’ulteriore imposta.
Nel caso di rivalutazione con valenza anche fiscale, il saldo attivo di rivalutazione che verrà iscritto nel patrimonio netto di bilancio (100 “Riserve da rivalutazione”, voce di Patrimonio netto come risulta dalla precedente Tabella 2), costituisce una riserva in sospensione di imposta che potrà essere affrancata.
 
L’affrancamento, in tutto o in parte, mediante versamento di un’ulteriore imposta sostitutiva del 10%, ne consente la distribuzione in capo ai soci, che poi la tasseranno individualmente, secondo quanto previsto dalla normativa fiscale.
Per effetto dell’affrancamento tale riserva sarà pertanto equiparata alle riserve di utili.
 
Ciò non avviene in caso di mancato affrancamento e pertanto la stessa:
  1. non viene distribuita, ma unicamente utilizzata per Aumenti gratuiti del Capitale sociale o per copertura di perdite formatesi
  2. viene distribuita, ma in questo caso, in assenza del suo affrancamento, la sua distribuzione costringerebbe la società a tassarla, pagandovi le imposte IRES ed Irap ad aliquota corrente e quindi ben più dell’importo forfettario del 10%.
Solo a questo punto la riserva sarebbe qualificata come di “Utili” e la sua distribuzione possibile con le regole di tassazione ordinaria in capo ai percettori.
 

La corretta rivalutazione conviene

Come si vede l’operazione di rivalutazione è complessa e incrocia questioni di natura civile e fiscale.
Due scenari, quello civile e quello fiscale, che fanno vedere come un errato comportamento civile finisca per compromettere la correttezza fiscale.
 
Una rivalutazione solo civilistica presenterebbe un’utilità limitata a una più corretta e veritiera rappresentazione della situazione patrimoniale dell’impresa nel rispetto della veridicità del bilancio.
 
La convenienza si apprezza maggiormente sul piano fiscale, con il pagamento di imposte sulla rivalutazione oggettivamente modeste.
 
Alla base di tutto vi è sempre la corretta rivalutazione sul piano civile, venendo meno la quale anche quella fiscale risulterebbe compromessa con le inevitabili conseguenze in termini di contenzioso fiscale.
 
 

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© Questo articolo, a firma di Attilio Sartori, è apparso per la prima volta sul Blog LA MOSSA GIUSTA.
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