Il 23 marzo il Leader Cinese Xi Jinping ha raggiunto il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte a Villa Madama e, insieme, hanno firmato il Memorandum of Understanding e le tanto discusse intese tra Italia e Cina.
Il cuore dell’accordo è la Nuova Via della Seta, o Belt & Road.
Risulta chiaro come non si sia in presenza di una strada vera e propria, un’arteria lungo la quale le persone e le merci possano circolare.
Tuttavia, in questo caso, può non essere così strano porsi delle domande che ci si porrebbe in presenza della realizzazione di una vera strada.
E’ allora il caso di domandarsi da dove inizi e dove finisca, se sia a senso unico o preveda più corsie per ogni direzione di marcia, quale sia il limite di velocità, se ci siano i famigerati telelaser e quindi a che velocità sia consentito procedere, se sia rettilinea o piena di curve, se preveda salite e discese ovvero sia solo in salita o solo in discesa, se sarà trafficata o meno, se a pagamento o gratuita, se saranno previsti svincoli per entrarvi ed uscirne e così via.
Questa è, come si dice, una “bella domanda”, tanto più se posta in Italia dove la realizzazione di opere pubbliche segue iter infiniti, irti di ostacoli posti praticamente da chiunque.
Nel caso delle strade, ad esempio, possono essere poste da amministrazioni di ogni tipo:
da quella statale, che si è appropriata di metodologie di analisi, la cosiddetta costi-benefici, che appartengono al mondo dell’impresa che per sua natura persegue l’utile e non risulta certamente ribaltabile su progetti caratterizzati dal perseguimento di interessi collettivi,
alle amministrazioni regionali, comunali,
fino ad una platea di organizzazioni locali e nazionali, ciascuna portatrice, troppo spesso, di interessi solo di parte, che nulla hanno a vedere con quelli collettivi.
Da ultimi, ma non ultimi, i corruttori, i faccendieri, i malavitosi che alla fine condizionano non solo la scelta del luogo dove realizzare l’opera, ma anche come farla e quindi come progettarla, come costruirla, a chi dare in appalto i lavori, che materiali utilizzare, perché anche loro ci devono guadagnare e quindi meglio risparmiare magari limitando il numero dei bulloni o la qualità dei materiali che comporranno la carreggiata.
Poi le strade franano ed i ponti crollano: una storia Italiana.
La Via della Seta è un progetto che prevede una più stretta collaborazione fra Italia e Cina.
Il Memorandum of Understanding - quadro di riferimento all’interno del quale si collocano accordi specifici - non costituisce un trattato commerciale dal quale possano derivare diritti e doveri rimessi alle norme internazionali, pertanto non rappresenta nessun obbligo giuridico o finanziario o impegno per le parti.
In quanto semplice accordo, esso si limita ad individuare nuove modalità di cooperazione fra i due paesi, in aggiunta a quelle già esistenti, attraverso diversi strumenti attivabili: scambi di visite istituzionali e informazioni, programmi pilota in settori chiave, ricerca congiunta, partnership pubblico-private, investimenti, collaborazione nei paesi terzi.
E’ un’intesa di cooperazione internazionale, promossa dalla Cina, alla quale l’Italia ha aderito come primo paese tra quelli del G7.
Sotto questo profilo la Via Della Seta manca ancora del progetto esecutivo, delle autorizzazioni amministrative, dei diritti di superficie, delle servitù, del capitolato di appalto, della gara e dell’aggiudicazione all’ impresa che realizzerà l’opera.
Poco più che un’idea, quindi.
Per quanto sia poco più di un’idea, almeno parte dei soggetti coinvolti, ovvero i costruttori sia di parte Cinese che Italiana, sono già identificati.
Una prerogativa tutta Italiana quella di partire, nella realizzazione di un progetto, dalla scelta degli esecutori anziché dalla stesura del progetto esecutivo.
Nell’ambito della Via della Seta, la stampa ci riferisce che sono stati già firmati 29 accordi, dei quali 19 istituzionali e 10 commerciali.
Un record per un semplice progetto, ma non così tanto se si riflette riguardo ai 10 accordi commerciali, a chi ne è coinvolto ed al loro contenuto, avendo sempre presente che altro non sono che semplici dichiarazioni d’intenti.
Ecco allora l’elenco dei “soliti noti“:
Cassa Depositi e Prestiti ed Eni, che hanno stipulato accordi di “partenariato strategico“ con Bank of China;
Ansaldo Energia che con China United Gas Turbine Technology, Benxi Steel Group e Shanghai Electric Gas Turbine ha sottoscritto intese di collaborazione tecnologica e di fornitura di una turbina;
ancora Cassa Depositi e Prestiti ed Ansaldo che con la Silk Road Fund ha sottoscritto un genericissimo “Memorandum of Understanding“che si pone all’ interno del più generale “Memorandum of Understanding“ che è la Via della Seta stessa, in pratica il memorandum di un memorandum;
l’Agenzia per il Commercio Estero che con Suning.com Group ha sottoscritto niente meno che una intesa di cooperazione strategica per la realizzazione di una piattaforma integrata di promozione dello stile di vita italiano in Cina: niente di più facile da realizzare in un paese che ha tradizioni millenarie ed è uno degli ultimi baluardi del comunismo reale;
l’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale-porti di Trieste e Monfalcone e China Communications Construction Group che hanno sottoscritto un accordo di cooperazione che, secondo alcuni, metterà il porto di Trieste sotto la direzione Cinese, quale punto di approdo via mare dei loro traffici commerciali.
Ma non è finita qui, ed ecco come il Commissario straordinario per la ricostruzione di Genova, l’autorità del Sistema Portuale del Mar Ligure Occidentale e China Communications Construction Group abbiano sottoscritto un accordo di cooperazione che, sotto certi aspetti apparrebbe terrorizzante, se solo riguardasse la ricostruzione del ponte a Genova, pensando alla qualità e durata delle infrastrutture realizzate dai Cinesi nel mondo;
Intesa Sanpaolo e Governo Popolare della città di Qingdao che hanno sottoscritto anche loro un bel “memorandum del memorandum”;
Danieli & C. Officine Meccaniche e China Camc Engineering che hanno sottoscritto un contratto per l’installazione di un complesso siderurgico integrato in Azerbaijan.
Ammettendo che questi accordi siano stati riportati dalla stampa con precisione, e non si vede motivo perché non debba essere così, risulta evidente che riguardano, relativamente all’Italia, certamente gli Organismi Statali di massimo livello ed alcuni colossi dell’imprenditoria italiana Eni, Ansaldo, Danieli.
A parte l’ovvia domanda: “perché proprio questi e non altri?”, non si vede null’altro che interessi le altre grandi imprese italiane, pochissime altre oltre a quelle presenti, per non parlare di PMI industriali, commerciali artigianali.
Per queste ultime c’è però la parola magica “Indotto“.
La moltiplicazione dei rapporti con la Cina favorirà un indotto che consentirà anche al tabacchino sotto casa di godere certamente di un beneficio, non solo e non tanto perché venderà sigarette e sigari cinesi, ma perché godrà degli effetti positivi del circolo virtuoso che solo la visione elementare dei sistemi micro e macro economici, che normalmente caratterizza le iniziative governative in campo commerciale e fiscale, può esprimere.
Se Ansaldo lavorerà di più guadagnerà di più ed investirà maggiormente sul capitale umano e su quello tecnologico, sviluppandosi. Così come lavorerà di più e si allargherà la filiera di fornitori e subfornitori a valle, che a loro volta investiranno di più garantendo più occupazione e quindi benessere, che troverà una ricaduta nelle casse dello stato per migliorare i servizi, potendo al tempo stesso ridurre le aliquote di imposta, aumentando il potere di acquisto delle famiglie e così via, di passaggio in passaggio, fino all’ incremento delle vendite del tabacchino sotto casa.
Una visione talmente modesta ed avulsa dai concetti di globalizzazione, internazionalizzazione, sviluppo tecnologico, investimento ad alta intensità di capitale e bassa intensità di lavoro, da apparire sconcertante.
Diverse preoccupazioni sono emerse in occasione della sottoscrizione dei “Memorandum of Understanding”, in particolare quelle legate alla (ritenuta eccessiva) presa di posizione del gigante asiatico nell’economia italiana e necessariamente anche in quella internazionale.
Questi timori sono suggeriti principalmente dagli Stati Uniti e in parte dall’UE.
A tal proposito, Vincenzo Petrone, direttore generale della Fondazione Italia-Cina, ha dichiarato: “Nel contesto della guerra commerciale, vista come una competizione strategica, soprattutto in campo tecnologico fra Cina e Stati Uniti, nel medio e lungo periodo, l’adesione dell’Italia alla Nuova Via della Seta è percepita come una maggiore vicinanza con Pechino. Gli Usa temono poi che l’Italia, primo membro del G7, possa dare un supporto politico decisivo al piano cinese. Questo avrebbe una valenza politica internazionale molto elevata. (…) Per quanto riguarda l’Unione Europea, il timore è che gli investimenti cinesi in Europa siano finalizzati all’acquisizione di tecnologia e possano mettere in difficoltà le aziende continentali non avendo i livelli di trasparenza dei progetti europei e delle regole dell’Unione sugli appalti.”.
Petrone continua minimizzando tali preoccupazioni, del resto il suo ruolo glielo impone, appellandosi all’idea che “l’Italia sarà in grado di destreggiarsi all’interno del panorama internazionale come Paese caratterizzato da un’importante funzione geopolitica, ma allo stesso tempo in grado di prendere decisioni coerenti e costruttive e di far valere, sulla scena mondiale, i diritti di Italia e UE.” (Fonte Fondazione Italia- Cina).
E’ una visione, quella di Vincenzo Petrone, che non è condivisibile perché semplicemente non guarda alla realtà che vede l’Italia in recessione (fonte: “Il Sole 24 Ore”) con un Pil che si è ridotto allo 0,2 per cento, un deficit che sale al 2,4 per cento, il debito che cresce di quasi 2 punti e si colloca al 132,6 per cento.
Sono le cifre contenute nella bozza del Def, Documento di Economia e Finanza, (Fonte: “Repubblica”).
Quando mai uno Stato come il nostro, che non rispetta alcuno dei parametri di crescita garantiti all’Unione Europea, potrebbe assumere una leadership in Europa tale da sostenere sulla scena mondiale i diritti della UE, oltre ai propri, senza contare, visto che di scena mondiale si parla, quelli di Stati Uniti e Russia?
Stiamo parlando di un’Italia che entra in conflitto con gli altri paesi europei, dimostrando un’aggressività che mai le era appartenuta, caratterizzata da una fronda antieuropeista ed una simpatia verso i movimenti sovranisti più radicali, che rinnegano le tragedie del passato, rivalutando situazioni e vicende che dovrebbero rimanere per sempre nella vergogna dei popoli. Un’Italia inconsapevole che gran parte del nostro debito pubblico è nelle mani degli altri stati membri UE che quindi, in quanto creditori, ben hanno diritto di pretendere garanzie e comportamenti virtuosi e rispettosi degli accordi presi, basti pensare alla TAV ed al tira e molla al quale le forze di governo giocano ogni giorno.
Si tratta di una strada quindi pericolosa, nella quale sarà difficile procedere, che rischia di generare ancora più diffidenza nei nostri confronti e che attraversa paesaggi sconosciuti abitati da soggetti che potrebbero rivelarsi diversi da quelli che ben conoscevamo: la Germania in primis, da cui dipende una quota di esportazione, per il nostro paese importantissima; l’Europa nel suo insieme, con la quale abbiamo per decenni intrattenuto rapporti che ci hanno garantito crescita e prosperità, sebbene fossimo male amministrati da politici inesperti, incapaci di una qualsiasi logica di programmazione, preoccupati solo del tornaconto personale.
La metafora è chiara.
La Via della Seta consentirà un reale interscambio di beni e servizi tra Italia (ed Europa e Stati Uniti secondo la visione così ottimistica della Fondazione Italia-Cina sul futuro ruolo di leader dell’Italia in Europa e nel Mondo) e la Cina?
Sarà cioè una via per la quale viaggeranno flussi di beni e servizi in condizione di reciproca importazione ed esportazione, oppure sarà a senso unico, esclusivamente utilizzata da un paese (la Cina) che si caratterizza da sempre per uno scarsissimo tasso d’importazione?
Stiamo parlando di un paese privo al suo interno di ogni rinnovamento sociale suscettibile di generare domanda, caratterizzato da una chiusura culturale, umana, politica pressoché totale e da un elevatissimo volume di esportazioni, alimentate da una politica di prezzi e qualità al ribasso, che si basano sull’imposizione di un bassissimo tenore di vita e di una inadeguata capacità di risposta ai bisogni.
Vincenzo Petrone, direttore generale della Fondazione Italia-Cina, ha di fatto già risposto quando dice “… il timore è che gli investimenti cinesi in Europa siano finalizzati all’acquisizione di tecnologia e possano mettere in difficoltà le aziende continentali non avendo i livelli di trasparenza dei progetti europei e delle regole dell’Unione sugli appalti.”
Questa è certamente un’affermazione corretta e ben rappresenta lo stato dell’arte delle relazioni con Pechino che, in misura maggiore o minore, marcano le relazioni commerciali dell’intero mondo occidentale.
Parlando di relazioni commerciali mondiali non si può essere tassativi nelle valutazioni e giudizi.
Non si può pertanto escludere che lo scenario si modifichi nel tempo.
Secondo i dati della Farnesina di fine 2017 l’export italiano in Cina ha toccato i 13 miliardi di euro, una cifra poco rilevante in confronto agli 87 miliardi della Germania (Fonte: Fondazione Italia-Cina).
Da considerare inoltre, stante la enorme differenza in termini di numero di abitatati tra Cina e Germania, (1 miliardo e 386 milioni in Cina ed 82 milioni in Germania), che il rapporto tra esportazioni e popolazione è dello 0,94% in Cina e del 106,09% in Germania.
Secondo la Fondazione Italia-Cina questo dato esprimerebbe al meglio il margine di crescita per l’Italia e la misura delle grandi opportunità sia sul fronte cinese che su quello italiano.
La Fondazione fa anche un’ulteriore affermazione, non motivandola, probabilmente influenzata da una visione, come si è detto, di matrice governativa ma in questo caso evidentemente condivisa: tale visione elementare dei sistemi micro e macro economici e dei circoli virtuosi che si possono generare al loro interno, sostiene che le prime a trarre beneficio dai “Memorandum of Understanding” saranno le piccole medie imprese, ovvero il cuore della produzione italiana, al punto che ad essere interessati non saranno solo i settori del tradizionale Made in Italy, ma anche le produzioni minori e meno specializzate, che potranno beneficiare di condizioni migliori e di privilegi sul fronte commerciale.
Ovviamente l’analisi può essere tranquillamente ribaltata, mantenendo pari dignità, per affermare che è proprio l’enorme divario tra l’esportazione nel 2017 verso la Germania rispetto a quella verso la Cina, a dimostrare una situazione di fatto non recuperabile, se non all’interno di una riorganizzazione commerciale mondiale, nella quale però proprio i Cinesi, anche in ragione del loro essere una popolazione di quasi un miliardo e quattrocento milioni nel 2017 ovvero ben oltre il 18% della popolazione mondiale, sarebbero al centro.
E’ giusto essere scettici e non farsi incantare da luoghi comuni ed analisi che guardano ad un mondo perfetto prescindendo dalla realtà dei fatti come oggi si presentano.
E’ certo però che non basteranno semplici accordi per giustificare il superamento del “Casello di Entrata” nella Via della Seta.
L’apertura della Cina all’importazione dal mercato occidentale implicherebbe prima di tutto una rivoluzione sociale interna, che allo stato attuale non è neppure pensabile, stante il regime collettivista e repressivo in essere in quel paese.
Le aziende italiane pertanto, per cogliere concretamente le opportunità del progetto Belt & Road, dovranno imparare a destreggiarsi e a promuovere la propria immagine sul mercato cinese, che già da solo rappresenta un problema che va oltre le possibilità economiche, alle quali si aggiungono vincoli politici di ogni specie, che possono ostacolare anche le più grandi imprese.
La Cina, infatti, è lontana sia dal punto di vista geografico che culturale, per questo richiede un’attenta valutazione dei suoi aspetti cardine.
Tanta diversità presuppone la conoscenza della cultura locale e dei modelli di pensiero, così come le abitudini di consumo e il mondo digital, attraverso cui si declina l’intera esperienza di acquisto del consumatore cinese.
Come dichiarato da Emanuele Vitali, Managing Director di Triboo East Media: “Gli accordi firmati tra Italia e Cina per la nuova Via della Seta hanno puntato i riflettori sulle opportunità che scaturiranno da un nuovo tipo di cooperazione tra i due Paesi. Niente di più vero, ma ora tocca alle imprese italiane cogliere la palla al balzo sapendosi approcciare ad un mercato con dinamiche completamente diverse dalle nostre. La Cina è un paese lontano anni luce da noi, soprattutto a livello culturale e, di conseguenza, anche nelle logiche di mercato. Per le nostre aziende, perciò, sarà fondamentale investire tempo e risorse dedicate, che porteranno a grandi benefici nel medio-lungo periodo.”.
Quanto sopra, a patto che la Cina acconsenta a questa interrelazione culturale riconoscendo alla cultura occidentale una condizione di reciproco rispetto, almeno in nome di una prosperità mondiale, alla quale, però, le potentissime oligarchie Cinesi certamente non pensano.
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© Questo articolo, a firma di Attilio Sartori, è apparso per la prima volta sul Blog LA MOSSA GIUSTA.
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