Proclami e realtà: la storia infinita


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“PROCLAMI E REALTÀ: LA STORIA INFINITA”

 

I desideri per il nuovo anno

Quanto vorrei che l’anno nuovo facesse diventare i politici pacati, riflessivi, consapevoli che - se si diventa Ministri - lo si è nel Governo del Paese che, in quanto tale, amministra tutti.
Vorrei che comprendessero che quando si attacca un esponente di un altro partito (“si attacca” è il termine ormai comune in una politica che ben rappresenta non un confronto civile, ma una vera aggressione, che è diventata la regola tra le forze in campo che ne fanno un uso sistematico portando avanti la loro guerra permanente) si aggrediscono tutti i cittadini italiani che in quel partito si identificano e che per questo lo hanno votato.
Vorrei dei professionisti della politica sensibili, studiosi, attenti e in grado di comprendere la complessità sociale così da suggerire una politica pensata per il bene comune, per la quale ogni provvedimento varato non sia solo valutato in termini di costi-benefici, di ritorno o danno elettorale.
Vorrei che venissero eliminate le rilevazioni settimanali, le medie e le super medie che ci vengono mostrate come macroscopiche variazioni in più o in meno del consenso elettorale, rilevato con banali intervistine che lasciano il tempo che trovano, inferiori al mezzo punto percentuale, enfaticamente collegate in un rapporto di causa effetto con quella tale dichiarazione, contrasto, iniziativa, provvedimento assunto.
 

Proclami e realtà

Malgrado i miei desideri ecco che, invece, siamo recentemente stati oggetto di rappresentazioni contrastanti.
Da una lirica che esalta l’Italia come la “Vaporiera d’ Europa”, al rapporto del CENSIS che descrive, numeri alla mano, una realtà diversa.
 

Non si trova “la quadra”

Non ci servono sintesi enfatiche degli italici primati, ma rappresentazioni realistiche nelle quali nulla venga sottaciuto, tanto la realtà è quella che è e prima o poi tutto viene alla luce.
In questo modo anche per noi le cose quadreranno.
Invece, se solo si ascolta la rappresentazione che del “sistema Italia” ha dato la nostra Premier qualche giorno fa nel comizio che ha chiuso la kermesse (Atreju 2024) del suo partito a Roma e la si confronta con quella che emerge dal 58° rapporto che il CENSIS (Centro Studi Investimenti Sociali) ha pubblicato il 6 dicembre scorso sulla situazione sociale del Paese nel 2024, si ha l’impressione che non quadri assolutamente nulla.

Se leggiamo le relazioni di enti accreditatissimi come il Censis, che, numeri alla mano, ci parla di 21 mesi di crisi del comparto industriale; se conosciamo in prima persona chi è in cassa integrazione da mesi e, tra loro, quelli sempre più atterriti da una prospettiva di disoccupazione, specie nel settore dell’auto e del suo indotto, coinvolti in una recessione che pare senza fine; se vediamo i nostri figli frequentare ogni giorno una scuola dove non possono studiare o capiamo che vorrebbero rendersi indipendenti rispetto alle famiglie, ma non ci riescono per colpa di salari inadeguati o contratti di lavoro precari; se non riusciamo a trovare posto in ospedale per analisi, esami, interventi che ci servono per sopravvivere; se le diagnosi sono tardive a causa di liste di attesa infinite; se invidiamo i nostri amici che, con maggiori disponibilità economiche, possono rivolgersi alla sanità privata… beh, come si fa a dire che in Italia va tutto bene e che siamo una locomotiva in Europa?
Non quadra, siamo di fronte a due realtà in contraddizione tra loro come se una fosse la rappresentazione di un mondo perfetto e l’altra la descrizione di quello che invece è.
 

La lirica e i numeri

Da una parte una lirica esaltante che rappresenta l’Italia come la “Vaporiera d’Europa”, dall’altra una fotografia, in un bianco e nero sbiadito, del nostro Paese che trova nei numeri, nelle percentuali, nei raffronti lineari con i medesimi dati riferiti agli altri paesi Europei, il proprio riscontro oggettivo.
I “numeri sono numeri”, come si dice, e per questo vanno presi per quello che sono, ovvero guardiani attenti e incorruttibili, forti del loro essere oggettivi, della realtà che devono misurare.
 

Atreju Vs Censis

Tutti cerchiamo una visione meno incerta del futuro nostro e del nostro Paese e, per farlo, abbiamo bisogno di una fotografia nitida del presente per cercarvi elementi che ci consentano di “farci un’idea” di come potrà essere l’anno prossimo (ci accontentiamo del minimo).
Ascoltiamo però due descrizioni della stessa Italia per certi versi agli antipodi.
Da una parte la rappresentazione dello stato del Paese che il Presidente del Consiglio ha dato qualche giorno fa chiudendo la kermesse (Atreju 2024) del suo partito a Roma.
Dall’altra il Censis (Centro Studi Investimenti Sociali, che è un istituto di ricerca socio-economico italiano le cui pubblicazioni sono molto autorevoli e vengono prese in considerazione per la stesura di programmi di sviluppo a lunga scadenza da apparati centrali e periferici dello Stato (Ministeri), enti locali (Comuni, Province e Regioni), ma anche da grandi aziende, sia private che pubbliche, nonché da organismi nazionali e internazionali) che ha pubblicato il 6 dicembre scorso Il 58° rapporto sulla situazione sociale del Paese nel 2024.
Per la nostra Italia, il 2024 è stato l'anno dei record.
La nostra Premier lo ha enfaticamente conclamato, partendo da quello nella lotta all'evasione fiscale e recupero delle imposte evase o non pagate.
 

Lotta all’evasione: l’appassito fiore all’occhiello

Si tratta di un fiore all’occhiello per il Governo, secondo il quale, nei due anni di vita, sono stati raggiunti traguardi una volta impensabili.
Nel rapporto del CENSIS, tuttavia, non se ne vede traccia.
Viene infatti da dire di alzare la mano a chi, tra le Partite Iva, può oggettivamente dichiarare che lo scenario è cambiato e finalmente gli evasori, che ciascuno di noi, alla fine, certamente almeno qualcuno conosce, vengono ogni giorno scoperti e costretti a pagare.
Sembra strano che chi ritiene che le tasse, che mai è stato bello pagare, siano un pizzo di stato, diventi il paladino della fedeltà fiscale.
In evidenza ci sono invece i dodici condoni varati dal Governo nel 2022, che poi sono diventati 28 con le ciliegine sulla torta del Concordato Preventivo Biennale e del Condono 2018-2022 che sono stati, lo dicono i numeri, un flop assoluto.
Che la politica dei condoni e la rinuncia al recupero di quanto dovuto sia per l’Erario l’unica strada possibile, viene ripetuto anche dai commentatori d’area che in televisione, venendo a patti con la loro dignità intellettuale, hanno il coraggio di ripetere che, alla fine, l’evasione fiscale non è un omicidio e che comunque gli evasori non potrebbero essere messi tutti in galera perché non ci starebbero.
Quanto a pagare le imposte evase o non versate, come potrebbero mai essere recuperate in capo a coloro che quelle imposte se le sono già spese?
Sarebbe la crisi del sommerso provocata dal pizzo di stato!
 

L’evasione dell’Iva si è ridotta in maniera importante

È un altro primato che il Governo si intesta.
È vero, solo che il merito va all’introduzione della fattura elettronica (nel 2018 da parte del Governo Gentiloni) e della riduzione dell’uso del contante che è ora fissato a 5.000,00 Euro contro i precedenti 3.000,00 (la relazione tra uso del contante ed evasione è talmente pacifica da essere ormai un postulato).
Resta il fatto che l’evasione fiscale pesa (i dati sono del 2021 perché l’inefficienza nella lotta all’evasione si traduce anche nella lentezza della raccolta e diffusione delle notizie che la riguardano) 82,4 miliardi di Euro e l’economia sommersa ammonta, nel 2022, a circa 200 Miliardi di Euro.
 

Mai tanti soldi dati alla sanità da nessun altro Governo

Lo dice la nostra Premier e sarà anche vero, ma solo in valore assoluto.
La misura dei fondi destinati alla sanità si misura invece in percentuale del PIL.
Bisogna farsene una ragione, si può anche misurarla in rapporto al costo di un chilo di patate, ma sarebbe sbagliato.
Semplicemente perché il valore assoluto del finanziamento non è indicativo.
Occorre tener conto dell’inflazione, dell’aumento dei prezzi di beni e servizi, dei farmaci, dei costi energetici (la maggioranza degli ospedali è ancora fortemente energivora), dei rinnovi dei contratti di lavoro del personale e delle eventuali incentivazioni economiche per il personale come accade adesso, in un momento di fuga dal SSN perché le motivazioni a restare non sono molte e, tra queste, gli stipendi tra i più bassi in Europa.

Nel 2023 l’Italia, per spesa sanitaria pubblica pro-capite, si è collocata solo al 16° posto tra i 27 Paesi europei dell’area OCSE (l’organizzazione internazionale di studi economici per i Paesi membri aventi in comune un’economia di mercato) e in ultima posizione tra quelli del G7.
La spesa sanitaria pubblica si è attestata al 6,2% del PIL, percentuale inferiore sia rispetto alla media OCSE del 6,9%, sia rispetto alla media europea del 6,8%.
Attualmente lo stanziamento, in Italia, è pari al 6.04% del PIL che diventerà il 6,05% nel 2025 e poi precipiterà al 5,7% nel 2029.
Sempre l’OCSE ha misurato che fino al 2040 la spesa sanitaria aumenterà, in valore assoluto, del 2,6% annuo a causa dell’aumento dei costi di produzione dei farmaci e dell’inflazione e che quanto verrà stanziato per la sanità sarà, sempre in valore assoluto, molto inferiore a questa soglia.
 

Il contributo (che non c’è) degli Istituti di Credito alla manovra di bilancio

Viene dipinto come un successo, la dimostrazione che ora gli sforzi li fanno tutti ed è tutto un correre delle forze politiche a intestarsi il merito di quello che viene dipinto come un successo unico nel suo genere.
In questa occasione valgono di più le parole scritte dei numeri in sé.
Le banche dovranno effettuare un versamento “forzoso” di circa 4 miliardi di Euro non vedendosi però incrementare le imposte (come quella ipotizzata sugli extra profitti poi rimasta lettera morta), ma differendo alcune detrazioni delle quali godono (nello specifico relative all’Ires e all’Irap), che riguardano i costi di svalutazione degli asset, cioè dei beni e risorse posseduti.
Come si vede si tratta di un’anticipazione delle imposte dovute, che si incassano quindi ora, e non più in futuro, non di un’imposizione aggiuntiva.
Parlare chiaro vorrebbe dire che non ha di fatto alcun senso tassare le banche pensando di farle partecipi della contribuzione nazionale, dal momento che ogni aumento dei costi da esse a qualsiasi titolo patito si ribalterebbe istantaneamente e per intero sui costi delle operazioni attive sopportati dalla clientela che non è in grado di opporvisi.
Sotto questo profilo le banche fanno da “interfaccia “tra l’erario e il consumatore finale che resta l’unico a restare inciso dal prelievo, solo nominalmente a carico degli Istituti di Credito.
 

Il boom di occupati

Mai così tanti occupati, è vero, ma il PIL non cresce se non per qualche frazione di punto percentuale (il PIL spagnolo, per fare un confronto, è cresciuto in un anno del 2,7%).
Sul tema ho dedicato un precedente articolo, OCCUPAZIONE SU, CRESCITA GIÙ, nel quale analizzavo questa solo apparente contraddizione, che si traduce nella constatazione che i nuovi occupati costano più della ricchezza che sono in grado di produrre.
Nel sistema economico attuale, pertanto, non sono un fattore di sviluppo.

Come al solito il valore assoluto è fuorviante perché non mette in evidenza come l’incremento occupazionale si registri in settori a bassa redditività (turismo e molti servizi) e per lo più con contratti a tempo determinato (quelli a tempo indeterminato sono fatti soprattutto con dipendenti over 55 anni e hanno una durata di fatto limitata alla data di maturazione dell’età pensionabile) che prevedono remunerazioni inadeguate.
Resta poi il fatto che, in barba ai toni trionfalistici, il nostro Paese è ultimo in Europa per tasso di occupazione medio con un distacco di 8,9 punti percentuali dal dato medio europeo.
Se ci allineassimo alla media europea gli occupati sarebbero oltre tre milioni in più rispetto a quelli registrati nel 2023.
Lo stato di incertezza spinge le aziende a assumere personale dipendente, con bassi salari e contratti precari, e a non fare investimenti, rinunciando così alla ricerca e allo sviluppo, all’evoluzione tecnica, funzionale ad un aumento della produttività, all’industrializzazione di nuovi processi per la produzione di nuovi beni o ad aumentare la qualità e l’appetibilità di quelli esistenti, creando occupazione di lungo periodo.
Non a caso gli investimenti sono in calo e presentano un saldo negativo (sono meno nel 2024 che nel 2023).
 

Il nostro sistema economico “tira” più di quello tedesco: è da esserne contenti?

È vero, la Germania è in recessione “tecnica”.
Lo è per una serie di motivi ben identificati, il primo tra i quali è la crisi del comparto automobilistico, fattore di traino primario in Germania, la flessione del quale non può che generare una crisi.
Non è da esserne contenti perché il nostro comparto manufatturiero è in larga misura dipendente dalla Germania cui assicuriamo la componentistica per le loro auto di pregio.
Esaltare la nostra forza economica marcando la debolezza, temporanea perché ben conosciamo la forza della Germania, del nostro principale cliente, non ha senso.

A breve subiremo in pieno gli effetti di questa situazione non potendo contare su un sistema industriale adeguato e l’inevitabile flessione del contributo offerto dai servizi tra i quali spicca l’offerta turistica, modale e ondivaga nel suo divenire.
Sono le fabbriche, la produzione di acciaio, di macchinari per l’industria, di automobili, che generano ricerca e sviluppo, impegnano operai, tecnici, coinvolgono e stimolano imprenditori capaci, a garantire lo sviluppo economico che è prima di tutto industriale.
 

Non di soli servizi vive l’economia di uno Stato

Un Paese che ha nei servizi la propria leva economica non ha alcuna prospettiva.
Si tratta di settori effimeri a basso valore aggiunto e condizionati da fattori modali, concorrenza internazionale e domanda interna instabile perché dipendente dalla propensione alla spesa, disponibilità economiche e altri fattori non preventivabili.
Malgrado ciò, in Italia, la crescita del comparto turistico è del 18,7% rispetto al 2013 (+26,7% di stranieri, + 10,9% di italiani) mentre si registra, nei primi otto mesi del 2024 rispetto agli stessi del 2023, una caduta nel comparto manufatturiero del 3,4% e una crisi industriale che dura da 21 mesi.
Mancano incentivi al comparto industriale (industria 4.0 depotenziata e industria 5.0 mai decollata, in quanto troppo complessa e irta di ostacoli e limitazioni) e mancano le figure professionali adeguate.
 

Imprese a corto di risorse umane

Nel 2017 la domanda delle imprese di risorse umane non trovava soddisfazione nella misura del 9,7% che è diventato il 28,4% nel 2023.
Tra i giovani si registra una insofferenza che fa sì che il 33,33% non voglia fare il tecnico specializzato, il 38,9% l’artigiano, il 47,7% l’idraulico, il 40,2% l’elettricista.
Uscendo dalla filiera manufatturiera, il 66,8% non vuole fare l’infermiere, il 39,1% il cuoco, il 35% il cameriere.
Addirittura il 66,8% non vuole fare il farmacista e il 64% il medico.
 

Il rapporto del CENSIS e la medietà italiana

Queste cose si dicono da mesi e mesi, se non da anni, ma nulla cambia.
‘Medietà’ è il termine che il rapporto del Censis utilizza per descrivere in una parola la condizione sociale italiana.
Applicato alla condizione della nostra economia sta a significare che l’Italia non soffre particolarmente (o lo fa meno di altri paesi) nei momenti di crisi, ma non approfitta delle condizioni favorevoli per rilanciarsi in maniera adeguata a fronteggiare i propri impegni.
Sembra che non ci si voglia rendere conto dei problemi in arrivo contando sempre sullo “stellone” Italiano che ci ha salvati in tante occasioni.
 

In medio non stat virtus

Quello che ci attende, non parlo di aspettative o semplici previsioni, ma di fatti concreti e decisioni prese, richiede invece un cambio di passo epocale.
Tra i vari impegni da affrontare due spiccano su tutti, ovvero il percorso di riduzione del proprio debito pubblico (2.981 miliardi di Euro a Ottobre scorso, pari a una ottantina di manovre di bilancio come quella appena varata) e la prospettiva che il Presidente USA Trump imponga (e ha la determinazione e la forza per farlo) agli stati membri della Nato di aumentare la spesa per la difesa al 5% del PIL (ad oggi il PIL Italiano è di circa 1.788 miliardi e il 5% sarebbe di circa 90 miliardi, come dire tre manovre finanziarie come quella appena varata), quando già sarà impossibile, non solo per l’Italia ma per quasi tutti gli Stati Europei, anche solo salire al 3%.


Siamo culturalmente preparati?

Una volta tanto lo scenario futuro è certo e non indefinito o solo abbozzato.
Va affrontato per quello che è e l’Italia ha bisogno di una classe dirigente preparata e culturalmente evoluta che non può che essere selezionata, in democrazia, da un popolo a sua volta culturalmente preparato che, partecipe del bene sociale, la scelga con il proprio voto.
Quando parlo di cultura, in questo contesto, parlo di sensibilità e capacità di analisi delle situazioni che ci circondano, che vanno comprese nella loro complessità, rifiutando ogni forma di semplificazione arbitraria.
Per giungere a questo non è possibile prescindere da una formazione scolastica adeguata e da una frequentazione quotidiana di ambiti stimolanti, che nulla hanno a che fare con la propaganda giornalistica, la visione del mondo offerta dai social, il rifiuto del confronto, i toni esasperati dei media.
 

Ignoranti, convinti e soddisfatti

Da questo punto di vista il rapporto del Censis è alquanto scoraggiante: siamo un popolo di ignoranti e, in qualche modo, contenti di esserlo.
Riprendendo quanto scritto nel rapporto “la mancanza di conoscenze di base rende i cittadini più disorientati e vulnerabili.
Per quanto riguarda il sistema scolastico, non raggiungono i traguardi di apprendimento in italiano: il 24,5% degli alunni al termine delle primarie, il 39,9% al termine delle medie, il 43,5% al termine delle superiori (negli istituti professionali il dato sale vertiginosamente all’80,0%).
Nel limbo dell’ignoranza possono attecchire stereotipi e pregiudizi: il 20,9% degli italiani asserisce che gli ebrei dominano il mondo tramite la finanza, il 15,3% crede che l’omosessualità sia una malattia, il 13,1% ritiene che l’intelligenza delle persone dipenda dalla loro etnia, per il 9,2% la propensione a delinquere avrebbe una origine genetica (si nasce criminali, insomma), per l’8,3% islam e jihadismo sono la stessa cosa”.

 

Italiani Minacciati Immaginari

Dall’ignoranza derivano anche delle ossessioni che fanno degli Italiani dei paranoici compulsivi.
Il popolo del Bel Paese si sente minacciato: dai migranti (38,3%), dalle famiglie non tradizionali (29,3%), da chi professa una religione diversa (21,8%), da chi appartiene a un’etnia diversa (21,5%), da chi ha un colore diverso della pelle (14,5%), da chi ha un orientamento sessuale diverso (11,9%).
 

Il ceto medio in declino

In un rapporto affidato al Censis e presentato nel maggio scorso alla Camera dei Deputati dal titolo “Il valore del ceto medio per l’economia e la società”, poi ripreso nel 58° rapporto sulla situazione sociale del Paese nel 2024, si legge come sia forte un sentimento di “crisi” nel ceto che fu trainante del miracolo economico italiano.
C’è la percezione di un peggioramento della situazione economica (i redditi sono inferiori del 7% rispetto a 20 anni fa), unito all’idea di avere alle spalle la fase storica di sviluppo italiano.
Il ceto medio ha timore per la propria condizione e per quella dei propri figli.
Non ha fiducia che sia ancora efficiente quell’ascensore sociale che consentiva un tempo ai meritevoli di costruire il proprio futuro.
 

Effetti rovinosi

“All’erosione dei percorsi di ascesa economica e sociale del ceto medio corrisponde una crescente avversione ai valori costitutivi dell’agenda collettiva del passato: il valore irrinunciabile della democrazia e della partecipazione, il conveniente europeismo, il convinto atlantismo.
Per il 71,4% degli italiani l’Unione europea è destinata a sfasciarsi, senza riforme radicali, il 68,5% ritiene che le democrazie liberali non funzionino più”.

 

Suffragio Universale e Suffragio Ristretto

“Il tasso di astensione alle ultime elezioni europee ha segnato un record nella storia repubblicana: il 51,7% (alle prime elezioni dirette del Parlamento europeo, nel 1979, l’astensionismo si fermò al 14,3%)”. 
In pratica, circa 17.000.000 di aventi diritto al voto sono cittadini italiani che non hanno un pensiero politico e sociale, ma un nulla che li rende inutili alla vita democratica, che vede nella partecipazione il proprio punto cardine.
L’Enciclopedia Treccani definisce il Suffragio Universale “Manifestazione della volontà popolare mediante il voto”.
Una definizione semplicissima che pone al centro “il voto”.
Se esso manca, non c’è Suffragio Universale, semplice e indiscutibile.
Sempre l’Enciclopedia Treccani parla di Suffragio Ristretto quando “il diritto di voto è attribuito solo a limitate categorie di cittadini, determinate con criteri vari, quali il censo, il possesso di un certo grado di istruzione ecc.”
L’astensionismo nelle percentuali e numeri registrati determina, nei fatti, il passaggio dal Suffragio Universale a quello Ristretto.
 

La responsabilità dei cittadini

La massa dei non votanti ha l’enorme responsabilità, che annega tranquillamente nel menefreghismo, di compromettere un sistema democratico basato sulla partecipazione, determinando il passaggio a una dittatura di quelle minoranze organizzate che al voto ci vanno, sapendo di essere sufficienti a piegare il Paese alle proprie pulsioni e interessi di parte.
Sanno di riuscirci, i numeri sono dalla loro.

 

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© Questo articolo, a firma di Attilio Sartori, è apparso per la prima volta sul Blog LA MOSSA GIUSTA.
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