Liberation Day: la guerra tariffaria è iniziata


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“TRUMP: DA ‘GUERRA TARIFFARIA’ A ‘GUERRA VALUTARIA’”
 

Sarà dura malgrado le frottole che ci raccontano

Il Liberation Day è andato oltre ogni aspettativa, non tanto per quanto detto in quell’occasione, perché era noto da tempo che le tariffe sarebbero state più o meno della misura ora conclamata e universali, ma per gli effetti che ha immediatamente scatenato e per la loro crescita esponenziale mentre si propagavano in un mondo che è apparso incredulo di fronte a quello che stava avvenendo e all’“harakiri” che gli Stati Uniti hanno deciso di fare.
 

Le cose che fa Trump

La sua politica è “erratica”, fatta di cose minacciate, dette e smentite, iniziative prese e annullate o spostate nel tempo, affermazioni paradossali, vere e proprie sparate che neppure si possono definire ideologiche per quanto sono scollate dalla realtà.
Nei tre mesi dal suo insediamento, Trump di cose inaspettate ne ha fatte, eccome.
Con i suoi “Ordini esecutivi” ha introdotto non solo norme bizzarre, ma soprattutto provvedimenti improntati a disgregare un sistema di relazioni, regole e valori certamente imperfetto, ma che ci ha assicurato, in occidente, 80 anni di pace e sviluppo allo stesso tempo, tenendoci tutti lontani dallo spettro di una terza guerra mondiale.
 

Come il Titanic

L’imprevedibilità di Trump è stata tale che ogni invito alla prudenza e la speranza di ripensamenti da parte sua pur di fronte alla presa d’atto dell’assurdità del suo agire, sono stati risucchiati in un vortice dove tutto è il contrario di tutto e il mondo è andato a sbattere, suo malgrado, nel Liberation Day, come il Titanic contro l’iceberg che lo ha affondato.
 

Mercato azionario a picco e dollaro giù

Se Trump guardasse in faccia la realtà vedrebbe gli effetti del Liberation Day e della sua demagogia sovranista solo considerando l’andamento del mercato azionario statunitense, che ha perso quasi 10.000 miliardi di dollari di valore dall'Inauguration Day, 17 gennaio, giorno del suo insediamento.

Quanto alla quotazione del dollaro, a inizio gennaio, poco dopo l’insediamento della nuova amministrazione alla Casa Bianca, il tasso di cambio tra euro e dollaro era di poco inferiore allo 1,03%.
Due mesi di politiche economiche erratiche sono riuscite a indurre gli investitori a vendere dollari a man bassa e ad acquistare euro, per lo più col risultato che la valuta nostrana, dopo gli apprezzamenti già accumulati giorno dopo dall’inizio dell’era Trump, ha fatto un balzo nella sola giornata del 3 aprile, il giorno successivo al Liberation Day, di quasi il 2,5% toccando quota 1,1105 per un euro, sui massimi dall'inizio di ottobre 2024.
 

Trump tra palazzi e casinò

Trump non è certo un politico di professione, né tanto meno un giurista o economista, ma un immobiliarista e non è una differenza da poco.

Trump iniziò a lavorare nel settore immobiliare grazie a un prestito di un milione di dollari ricevuto dal padre, che lo aiutò a entrare nell’azienda di famiglia.
Dopo averne assunto la direzione nel 1971, cambiò il nome dell’impresa in Trump Organization e trasformò il business spostandosi dagli immobili residenziali di Brooklyn e nel Queens a progetti più ambiziosi a Manhattan.
Negli anni Ottanta, la Trump Organization investì in grandi progetti immobiliari a New York e Trump divenne presto un noto uomo d'affari.
La famosa Fifth Avenue newyorchese divenne la sede della Trump Tower, forse la più celebre proprietà del magnate nonché sua residenza per molti anni.

Il marchio Trump si estese anche a casinò, condomini, campi da golf e hotel, costruiti non solo in città americane come Atlantic City, Chicago, Las Vegas, ma anche in paesi come India, Turchia e Filippine.
Nel 1988, Forbes stimò il suo patrimonio netto a un miliardo di dollari, che però si sgretolò tra il 1985 e il 1994 a causa di una cattiva gestione che segnò quasi dieci anni di perdite consecutive, in cui diverse sue aziende fallirono o furono vendute come la compagnia aerea Trump Shuttle.

Oltre al settore immobiliare, Trump si fece strada anche nel mondo dello spettacolo.
È stato proprietario dei concorsi di bellezza Miss Universo, Miss America e Miss Teen Usa, per poi consolidare la sua fama come conduttore e creatore del reality show “The Apprentice”, in cui giudicava aspiranti imprenditori in una competizione per un posto nella Trump Organization.
 

Trump non è un leader come gli altri

Malgrado un tale curriculum, si è sperato che Trump fosse comunque un leader come gli altri, che danno indirizzi di massima ai propri collaboratori e agli imponenti staff di consulenti di ogni tipo, che sono poi quelli che traducono in atti e azioni concrete la linea loro indicata, financo costringendo il “capo” a rettificare le proprie determinazioni ad agire in nome della politica che è, come sosteneva Bismarck, “l'arte del possibile”, un esercizio di concretezza, un continuo allineare un progetto alla realtà e non espressione di una vivace fantasia.

Trump è invece diverso e applica, nel suo ruolo, uno stile decisionista, individualista e muscolare di chi ha fatto impresa negli Usa, che è un mondo in buona parte a sé stante, nel quale le relazioni commerciali si muovono secondo dinamiche solo in parte comuni con quelle di chi fa impresa nel resto del mondo occidentale.

I miliardari del suo board sono dello stesso stampo, non se li è scelti a caso, e ora hanno in mano le leve di un mondo disorientato perché ha scoperto che l’agire dei leader (Trump in testa, ma potremmo parlare di Putin e Netanyahu e di chissà quanti altri) non è sempre e solo dettato da ragioni di convenienza e logiche economiche che ne delimitino il campo di azione.
I capi supremi, se lasciati operare senza contrappesi al loro strapotere, possono invece assumere decisioni antieconomiche e antistoriche con estrema naturalezza, in nome di un ego smisurato.
Come si spiegano altrimenti, solo per fare un esempio, le limitazioni imposte alle aziende che favoriscono l’integrazione di genere, o quelle che non utilizzano prodotti che sono considerati in Europa, giustamente, come dannosi alla salute?
 

La guerra tariffaria, antistorica e antieconomica

La guerra tariffaria dichiarata da Trump è antistorica.
I dazi sono sempre esistiti e gli effetti devastanti di un’azione su vasta scala simile all’attuale l’America li ha già sperimentati sulla propria pelle nel 1930 con l’allora Presidente Repubblicano Herbert Hoover che ratificò lo Smoot-Hawley Tariff Act che, nel giro di una notte, determinò un aumento dei dazi del 60% su oltre ventimila prodotti stranieri.
Nel giro di tre anni le importazioni degli Stati Uniti crollarono del 66%, le esportazioni del 61% e il tasso di disoccupazione passò dall’8% al 25%, aggravando gli effetti della Grande Depressione.

La guerra tariffaria è antieconomica.
Non esiste osservatore al mondo che non concordi sul fatto che la prima vittima della guerra dei dazi saranno proprio gli Stati Uniti e, in particolare, le fasce deboli della popolazione, vittime di una povertà che andrà diffondendosi in un contesto di pesantissima arretratezza economica.
 

Una dichiarazione imbarazzante al giorno

Scrivendo su Truth, proprio oggi (7 aprile), Trump ha rappresentato una immagine della realtà americana fotografata alla rovescia.
The Donald ha enfatizzato il fatto che i prezzi del petrolio sono in calo come quelli dei prodotti alimentari e dei tassi di interesse, malgrado la lentezza della Fed nel tagliarli, e non c'è inflazione.
Se ne rallegra, ma non considera che sono tutti segnali di una depressione in arrivo, anticipata da un calo della domanda interna e dalla riduzione degli investimenti, che è significativa di un minor accesso al credito.
In queste condizioni è chiaro che l’inflazione si riduce, ma non per effetto di politiche monetarie sui tassi, bensì per un eccesso dell’offerta sulla domanda e la invocata riduzione forzata dei tassi da parte della Fed serve, appunto, a sostenere quest’ultima, rinvigorendo la dinamica economica interna, offrendo a consumatori e imprese dollari a buon mercato.
Bassi tassi di interesse vogliono anche dire deprezzamento del valore del dollaro, perché i fondi internazionali, di fronte a rendimenti scarsi in ragione dei bassi rendimenti loro offerti, liquideranno i portafogli in dollari, immettendo liquidità nel sistema, generando un eccesso di offerta del dollaro rispetto alla domanda e quindi un suo deprezzamento.
Quest’ultimo sarà utile per favorire le esportazioni che saranno più a buon mercato e potranno attenuare l’impatto prodotto dai contro-dazi sull’esportazione dei beni americani che la Cina ha introdotto per prima.
 

Il sistema perfetto immaginato dal Tycoon

I dazi sono delle imposte che lo Stato incamera e che, in un sistema perfetto e come tale ideale, dovrebbe ridistribuire a famiglie e imprese, aumentando il reddito delle prime e la forza economica delle seconde.

Parliamo di uno schema ideale che non considera come la propensione alla spesa, in generale, si riduca in presenza di un aumento dei prezzi che viene percepito come chiaro segno di impoverimento, a nulla rilevando che la redistribuzione dei dazi dovrebbe consentire la conservazione del potere di acquisto del consumatore.

La conseguenza è che i consumi e le importazioni diminuiscono più del dovuto e il meccanismo perfetto si inceppa, specie in presenza di contro dazi che ostacolano le esportazioni.
La politica monetaria ottimale deve quindi procedere nell’abbattimento dei tassi di interesse e nel conseguente deprezzamento del dollaro, così da stimolare gli investimenti a fronte di esportazioni rese più appetibili agli operatori, tenendo allo stesso tempo sotto controllo l’inflazione che potrebbe sgretolare comunque il potere di acquisto.
 

Tutti tacciono

La visione di Trump è modesta e inadeguata, ma perfettamente in linea con l’atteggiamento e la cultura politico-economica dell’uomo e con il suo fine politico.
Come tutti i comunicatori sa di dover dare rappresentazione solo di quell’aspetto della realtà che serve al suo scopo.
Altrettanto non può però essere per l’amministrazione statale che opera per prevedere e rilevare gli effetti delle azioni politiche intraprese ed evitare che le stesse possano svolgersi in danno, quanto meno, degli interessi dell’elettorato cui il leader si rivolge.

L’amministrazione federale rappresenta negli Stati Uniti proprio uno di quei contrappesi indispensabili a far sì che un leader non diventi una sorta di dittatore, ma resti nel suo ruolo che lo vede comunque “Primus inter pares”.
Trump ha invece zittito anche quest’ultima, minacciando chiunque volesse interferire con il suo operare di finire nelle epurazioni di Musk.
Libero di agire, ha messo nel mirino tutti coloro che, in passato, avessero sostenuto suoi avversari politici o fossero stati coinvolti in cause civili o penali contro di lui.
Con cinque ordini esecutivi, il presidente ha revocato a importantissimi studi legali, rei di aver in passato avviato cause contro di lui, le autorizzazioni di sicurezza necessarie a lavorare con l'esecutivo, ordinato la risoluzione dei contratti governativi e limitato l'accesso agli edifici di Washington ai dipendenti delle aziende.
 

Anche le “Big Seven” stanno in silenzio

Non si sente neppure la voce delle imprese americane e, in particolare, delle “Big Seven” dell’innovazione digitale.
Quelli che sembravano i maggiori beneficiari della sua presidenza, si sono trovati di fronte, già prima del Liberation Day, a un'inversione di tendenza che ha eroso drasticamente le loro fortune (che comunque restano immense).
Bloomberg calcola che nei primi due mesi di presidenza Trump siano stati bruciati 209 miliardi di dollari.

Le aziende che avevano spinto i miliardari in cima alla scala della ricchezza, da Tesla ad Amazon, da Meta a LVMH, hanno subito perdite devastanti.
Un esempio per tutti è Tesla (che pure appartiene al primo dei fedelissimi di Trump, figuriamoci gli altri) che aveva raggiunto una capitalizzazione record di 486 miliardi di dollari e ha visto evaporare questa cifra con le azioni che hanno perso tutti i guadagni realizzati.
Amazon, di proprietà di Jeff Bezos, ha visto il suo valore azionario crollare del 14% dopo il giuramento del Presidente.

Per i CEO delle grandi aziende la protezione dei profitti è l'obiettivo finale e Trump, se è vero che non lo sta facendo, ben potrebbe addirittura deliberatamente comprometterli colpendo le aziende con provvedimenti esecutivi vendicativi di ogni tipo.
Un ginocchio piegato, elogi sperticati o semplicemente lo stare zitti può allora essere una strategia difensiva necessaria.
 

Ignorare le relazioni di causa effetto

Quello che veramente stupisce e allo stesso tempo impaurisce è come manchi del tutto la comprensione della complessità del sistema economico globale.
Ad ogni azione corrisponde una reazione di effetto contrario in un sistema interconnesso al massimo, dopo anni di economia globale.

Le auto prodotte negli Stati Uniti necessitano di componenti finiti che provengono da altri paesi e per questo gravati di dazi che ne faranno lievitare il prezzo per il consumatore finale americano.

Gli Stati Unti hanno bisogno, per riavviare un settore manufatturiero abbandonato da anni, di macchine operatrici industriali che necessariamente dovranno essere importate dall’estero e in particolare dall’Europa, dove l’attività di ricerca, sviluppo e innovazione nel comparto industriale non si è mai fermata e costeranno di più a causa dei dazi.

Le importazioni di beni essenziali (alimentari, energetici e farmaceutici in primis) non rallenteranno per effetto dei dazi, ma il loro costo aumenterà in presenza di una domanda anelastica, che farà sì che i consumatori appartenenti alle fasce con minore possibilità di spesa dovranno limitare i propri consumi complessivi per concentrare le loro risorse su quelli essenziali, impoverendo la domanda globale e rallentando il ciclo economico.
 

Il fattore tempo

C’è poi il fattore tempo, perché la “transumanza” delle imprese del mondo intero verso gli Stati Uniti, per produrre e vendere senza avere al collo il cappio rappresentato dai dazi che alimenteranno l’economia interna a dismisura facendo così diventare gli Usa “la terra promessa” immaginata da Trump, richiederà tempi lunghissimi per creare infrastrutture, strade, ferrovie, porti, linee elettriche.

Senza contare che i dipendenti delle industrie (per alimentare la produzione interna, esse dovranno produrre beni e non servizi e avranno pertanto bisogno di risorse umane in abbondanza) che si insediassero negli Usa dovranno essere alloggiati, vivere in poli industriali che, stante la dimensione degli Stati Uniti, possiamo immaginare saranno in buona misura isolati e dovranno essere dotati di ogni servizio diventando delle piccole città.
 

Non è uno schioccar di dita

Le imprese, prima di valutare un reinsediamento negli Usa devono poter pianificare gli investimenti necessari che, per essere realizzati, richiedono principalmente stabilità economica e politica, sviluppo economico certo, risorse finanziarie e tempo.
Per queste ultime non si può pensare che siano le imprese a farsene carico integralmente.
I calcoli di convenienza mettono in relazione i costi e i benefici di una operazione.
Delocalizzarsi, insediarsi o reinsediarsi, svilupparsi negli Usa richiede la realizzazione di un progetto complesso che potrebbe accompagnarsi con la necessità di cessare o quanto meno ridimensionare il vecchio.
Il tutto, parlando di aziende allineate a progetti di tale peso e come tali quanto meno di medio-grandi dimensioni, comporta investimenti immensi e una programmazione pluriennale che andrebbe a discapito dello sviluppo comunque possibile nel territorio nel quale sono già insediate e in mercati non gravati da barriere tariffarie.
Il fatto che poi gli Usa subiscano dei contro-dazi (come quelli del 34% imposti dalla Cina) danneggerebbe la possibilità delle imprese neo insediate di continuare nelle proprie esportazioni dovendo operare praticamente solo per il nuovo mercato interno.

Sul piano finanziario, per la copertura degli investimenti esse pretenderanno aiuti adeguati dal governo federale, sotto forma di mutui a tasso bassissimo e di durata pluridecennale se non a fondo perduto, con ciò contribuendo all’aumento del debito federale, già a livello astrale e come tale fonte di incertezza e insicurezza sulle prospettive economiche.
Un’indisponibilità da parte del governo federale a sovvenzioni di questo tipo sarebbe un elemento decisivo, per una impresa, a rinunciare a una qualsiasi delocalizzazione.
Una decisione di questo tipo, moltiplicata per tutte le imprese potenzialmente convolte, innescherebbe una crisi depressiva inarrestabile per il mercato Usa.
 

Ci devono dare un sacco di soldi

È quello che ha detto Trump sempre oggi (7 aprile) commentando l’affermazione, non verificabile, che gli stati colpiti dai dazi stanno facendo la coda per venire a trattare con lui.
Sarà disponibilissimo, a patto che vengano pagati “un sacco di soldi”.

Ho già scritto in proposito e questa affermazione è in linea con il disegno di Trump nel quale i dazi non sono tanto una leva economica di favore, quella sui dazi è una battaglia senza vincitori, ma unicamente con vittime, quanto uno strumento di ricatto.
Se uno stato non vuole vedersi applicare dazi sottoscriva titoli del debito pubblico statunitense a tassi di interesse bassissimi e durata centenaria.
Con quei soldi gli Usa ridurranno il loro deficit immenso, rilanceranno l’economia e recupereranno il prestigio tanto caro a Trump.
 

La “task force” italiana contro i danni della politica tariffaria

A parte la Presidente del Consiglio, gli altri ministri coinvolti sono Giancarlo Giorgetti (Economia) esponente di un partito che dice che i dazi sono un’opportunità per l’Italia, Adolfo Urso (Imprese) la cui competenza mi sfugge, Francesco Lollobrigida (Agricoltura) che non ha bisogno di presentazioni e Tommaso Foti (Affari europei), ministro neoeletto il cui più recente incarico politico è stato quello di componente della Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi (2024).

Ministri competenti e illuminati, si direbbe, ma anche loro sono scivolati nel simpatico esercizio di “chi la spara più grossa”.

In allegria hanno dato corpo, Giorgetti in primis, alla difficoltà (reale o solo apparente) di comprendere la complessità dei sistemi connessi, affermando che le nostre esportazioni verranno coinvolte dai dazi solo in piccola parte.

Un’affermazione che non vuol dire assolutamente niente perché è il sistema a essere colpito.
Se un’azienda italiana lavora per un cliente nazionale che esporta negli Usa, la perdita della quota di mercato che l’azienda cliente patirà si ribalterà sulla prima sotto forma di riduzione delle commesse o riduzione del prezzo pagabile per le stesse.
Sempre la prima dovrebbe allora rivalersi a valle nei confronti dei propri fornitori e questi ultimi nei confronti dei loro e così via.

Se la Mercedes vedesse ridurre la propria quota di mercato negli Usa per colpa dei dazi, ridurrebbe le commesse ai sub fornitori che sono in gran parte imprese italiane.
Se la BMW, pur producendo negli Usa, vedesse lievitare il costo dei mille componenti di una sua vettura oggetto di importazione e per questo gravati di dazi, subirebbe l’impatto di questi ultimi malgrado la localizzazione privilegiata.

I dipendenti di Mercedes e Bmw, licenziati a causa della flessione indotta nella produzione dei loro ex datori di lavoro e quelli della catena di subfornitori privati delle loro commesse, continuerebbero ad andare al mare in agosto sulle spiagge Italiane?
Terrebbero i consumi interni o si genererebbe l’ennesima recessione? 

Ma la nostra task force certamente ha la risposta, solo che se la tiene per sé.
 

Imprenditori Coraggiosi (?!)

Non solo i governanti italiani ma anche industriali del nostro paese, che ritenevo illuminati. si sono dati battaglia a chi la dice più grossa.
È il caso di un noto imprenditore del settore alimentare del nord-est, che ha detto in televisione, non al bar, che siccome il dazio si applica sul prezzo alla dogana, che è più basso di quello al consumo, sarà di modesto impatto sul consumatore finale.

Immaginiamo allora che il prezzo alla dogana di una bottiglia di vino sia di 50 e il dazio di 10. Il prodotto entrerà negli Stati Uniti a 60 per poi subire un aggravio progressivo dovuto ai passaggi di mano in mano, per giungere infine sulla tavola del consumatore americano a 100.
Proprio perché è applicato su 50 il dazio “costa poco in valore assoluto”, figurati che cosa sarebbe se fosse applicato sul prezzo al consumo.

Ma che ragionamento è...?!
A parte che basterà anche solo quel dazio a ridurre la propensione all’acquisto di quel bene, diventato per questo più costoso di altri, va detto che esso è solo il primo di una serie di addendi che del dazio sono la conseguenza.
A cominciare dall’importatore, che calcolerà le proprie provvigioni su un importo maggiore per continuare con i passaggi di mano in mano, tra i soggetti coinvolti nella conservazione e distribuzione e in generale tutti quelli che si collocano a valle dell’importatore, ognuno dei quali costerà di più, perché nessuno degli operatori coinvolti rinuncerà ad allineare il prezzo delle proprie prestazioni/provvigioni all’aumentato costo del prodotto, per conservare i propri profitti all’interno di un processo generalizzato di emulazione dei prezzi più alti praticati.

Il prezzo per il consumatore finale, quindi, non si incrementerà solo del dazio, che alla fine ricadrà comunque su di lui, ma anche di tutti gli incrementi di costo generati dai passaggi intermedi, finendo per crescere a dismisura.

Da qui la perdita di quote di mercato anche per quell’imprenditore del nord-est che dice che alla fine i dazi sono poca cosa.

 

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