Un’importante novità sta per coinvolgere tutte le società in generale e le società di capitali in particolare.
Tutto si ricollega alla Legge di Riforma del Fallimento ora chiamato "Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza" che è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 14 Febbraio di quest’anno.
Si tratta di una sorta di “Tsunami” che si abbatterà sulle imprese, perché come al solito, questa è l’impressione, il legislatore appare talmente lontano dal mondo dell’imprenditoria da non avere la più pallida consapevolezza della realtà aziendale, composta per la stragrande maggioranza da piccole e medie imprese che di tutto hanno bisogno meno che di appesantimenti burocratici e lievitazione dei costi di amministrazione.
La nuova legge riforma organicamente la disciplina delle procedure concorsuali con lo scopo di introdurre una serie di principi generali dei quali i più importanti si possono riassumere partendo da quello apparentemente più singolare, ovvero una modifica terminologica che abolisce il termine “fallimento” per adottare quello di “Liquidazione Giudiziale”.
In ciò non si vede un’utilità concreta, anche perché se fino ad ora era facile dire che una certa azienda era “fallita”, esprimendone sinteticamente il decesso per malattia, ora non è ben chiaro come si farà a descrivere una condizione non dissimile a meno che non si possa dire “Liquidata Giudizialmente” che sono due parole al posto di una, circostanza che già di per sé appare stridente con una logica di semplificazione alla quale il nostro legislatore dovrebbe comunque puntare.
Ma gli aspetti importanti sono oggettivamente altri tra i quali:
l’aver inteso lo stato di crisi aziendale come probabilità di futura insolvenza, anche tenendo conto delle elaborazioni della scienza aziendalistica, mantenendo l’attuale nozione di insolvenza;
assoggettare ai procedimenti di accertamento dello stato di crisi o insolvenza ogni categoria di debitore, persona fisica o giuridica, ente collettivo, consumatore, professionista o imprenditore esercente un’attività commerciale, agricola o artigianale, con esclusione dei soli enti pubblici;
prevedere un organismo, l’“OCRI”, che si occuperà dell’analisi della crisi, come pure della prospettazione delle relative soluzioni, al fine di far riprendere le attività imprenditoriali, ovvero di avviare le procedure giudiziali.
prevedere nuovi limiti dimesionali per la nomina del Collegio Sindacale e del Collegio dei Revisori.
La norma comprende tanti altri aspetti importanti ed anche innovativi ma quanto sopra può rappresentare certamente un sunto di quelli di maggior impatto.
Per prima cosa si afferma una filosofia di fondo certamente positiva, ovvero che la crisi di impresa debba essere oggetto di previsione e cura preventiva.
La legge Fallimentare del 1942 prescindeva da questa posizione predittiva rispetto all’arrivo di uno stato di insolvenza, nella generalità dei casi intervenendo quando la stessa era diventata irreversibile ed essenzialmente disciplinando la procedura successiva di “sepoltura”, attraverso le procedure fallimentari previste, dell’azienda ormai defunta.
La nuova filosofia introdotta cambia il punto di vista dello stato di crisi aziendale passando dalla presa d’atto finale alla sua previsione, facendo intervenire organismi professionali e non, in grado di allertare l’imprenditore circa un’evoluzione in negativo della vita aziendale fino a definire azioni strategiche condivise per consentire all’impresa di recuperare una condizione di salute.
Ma proprio qui si annida uno dei limiti più evidenti della nuova normativa, ovvero il fatto di essere stata generata da burocrati che non hanno consapevolezza della realtà aziendale, della sua dinamica, della sua dimensione (in Italia per lo più piccola se non piccolissima), delle diversità generate da ubicazioni diverse, del ruolo dell’ imprenditore e delle sue capacità che vanno ben oltre le conoscenze tecniche ma investono la sua sensibilità commerciale in senso lato, le sue relazioni personali.
Non basta, perché il limite maggiore appare essere la non consapevolezza del Legislatore che la crisi di impresa può essere temporanea e superabile in tempi brevi con la sola intelligenza ed iniziativa dell’imprenditore, che vengono mortificate qualora tale condizione venga incanalata in un processo tecnico-burocratico al solo lontano sentore di una situazione di difficoltà in arrivo.
Burocrati che ragionano come tali e che si affidano a tecnici e professionisti a loro volta burocratizzati al punto di impiegare strumenti statistici come se la realtà dell’impresa potesse sempre e comunque essere ricondotta all’ interno di matrici da sole in grado di rappresentarne in pieno la sua complessità, incasellando le mille variabili della gestione all’ interno di schematizzazioni ritenute infallibili.
Ed ecco allora che la riforma della “Crisi d’impresa e dell’Insolvenza” prevede l’istituzione, presso ciascuna CCIAA, di un apposito organismo che assista il debitore nella procedura di composizione assistita della crisi, funzionante per il tramite di un collegio esperti.
Si tratta dell’“OCRI”, Organismo di Composizione della Crisi di Impresa, che si dovrà occupare dell’analisi della crisi, come pure della prospettazione delle relative soluzioni, al fine di far riprendere le attività imprenditoriali, ovvero di avviare le procedure giudiziali.
In particolare tale organismo, come detto funzionante per il tramite di tecnici normalmente avulsi da ogni consapevolezza aziendale, opererà presso ogni CCIAA, quindi in un ambiente asettico rispetto a qualsiasi realtà aziendale e distante dalla impresa non solo sul piano della consapevolezza della sua realtà aziendale, ma anche della sua collocazione territoriale, al punto di poter essere addirittura inconsapevole della sua ubicazione e pertanto delle condizioni locali che ne possano caratterizzare l’operatività.
Tanto più che la Camera di Commercio competente sarà quella dove l’impresa avrà la propria sede legale e non quella operativa.
Dunque, ad esempio, una condizione di crisi potrebbe allora essere analizzata a Milano solo perché lì ha sede legale la società che viceversa opera ad Udine.
Il suo compito sarà quello di gestire:
la fase dell’allerta per tutte le imprese, ovvero la raccolta di informazioni rappresentative dell’imminente arrivo di una condizione di crisi;
l’eventuale procedimento di composizione assistita della crisi per le imprese differenti da quelle minori (o imprese “sotto soglia”).
L’OCRI è un “Organismo” che opererà per il tramite di “Organismi” che saranno:
il Referente, ovvero il segretario della CCIAA competente, oppure un suo delegato, al quale sarà attribuito il compito di salvaguardare la tempestività del procedimento;
l’Ufficio del Referente, ovvero l’apparato costituito dal personale e dai mezzi messi a disposizione dell’organismo dalla CCIAA;
il Collegio degli Esperti, nominato di volta in volta per il singolo affare, e composto di tre membri, indicati:
dal Tribunale delle Imprese;
dal Referente della CCIAA;
da un’Associazione di Settore cui appartenga il debitore.
Già qui è di tutta evidenza come si proceda in un progressivo distacco da tutto quanto appartiene alla realtà dell’impresa.
Si è in presenza di un pensiero ed un atteggiamento disarmante.
Non è possibile oggettivamente comprendere come una burocrazia imperversante con tale arroganza possa farsi portatrice di interessi che non siano solamente i propri.
“Organismi fatti di organismi”, avulsi da ogni realtà aziendale ma ben portatori di metodologie di lavoro, disinteresse e propensione alla corruzione che ben si conoscono e che fanno parte da sempre del tessuto amministrativo nazionale.
Ma non basta, dal momento che questo organismo si muoverà in funzione di segnali di “allerta” che saranno inviati:
dall’Organo di Controllo dell’impresa, ovvero del Collegio Sindacale o il Collegio dei Revisori che diventeranno obbligatori per una fascia molto più ampia di società di capitali rispetto all’attuale;
dai Creditori Pubblici qualificati:
Agenzia Entrate,
Inps,
Agente Riscossione.
Sulla scorta delle segnalazioni ricevute, e dopo aver accertato la sussistenza dei requisiti legali per affrontare la crisi, l’”OCRI”, dovrà convocare l’imprenditore al fine di:
esaminare la situazione aziendale in generale;
verificare i presupposti di crisi;
individuare le iniziative da intraprendere per oltrepassare la fase di difficoltà, entro un periodo di tempo fissato dallo stesso organismo.
Come si può comprendere siamo in una condizione praticamente fantascientifica.
Organismi partoriti da Organismi, localizzati a centinaia se non migliaia di chilometri, in certi casi, da dove si svolge quotidianamente l’attività operativa dell’azienda, esamineranno situazioni di crisi che potrebbero essere complessissime individuando, nei loro ambienti asettici, le iniziative che consentiranno di superare lo stato di recessione.
Ed attenzione al fatto che la disposizione esclude solo le imprese minori (ovvero al di sotto di determinati parametri dimensionali) e le grandi imprese oltre ad una serie di altri soggetti ben identificati.
La circostanza che includa la società di capitali, vale solo a ricomprendere tra i soggetti obbligati a trasmettere i segnali di crisi anche gli Organi di Controllo, la presenza dei quali si estende ora ad una platea molto più vasta di soggetti.
Ma la norma riguarda qualsiasi soggetto che eserciti un’attività commerciale indipendentemente dal suo inquadramento giuridico fatti salvi i limiti dimensionali minimi o massimi e l’appartenenza o meno a determinate categorie di soggetti di cui si è detto.
E l’imprenditore, questo sconosciuto, che ruolo potrà avere, triturato all’interno di un meccanismo che nasce senza la sua presenza, che valuta e decide facendo della propria assoluta ignoranza dei fatti il proprio punto di forza, che non saprà valutare la temporaneità o meno della crisi, non conoscerà le risorse in termini di relazioni e rapporti con dipendenti clienti e fornitori, che l’imprenditore potrà mettere in campo?
All’ imprenditore verrà dato un periodo di tempo per avviare (termine che nel sito dell’Agenzia delle Entrate compare con il suo sinonimo “principiare” il quale la dice lunga, se non sul grado di cultura dei burocrati “scrivani”, quanto meno sulla capacità di aderire al motto “parla come mangi”), le iniziative indicate dall’“OCRI”.
La norma indica anche altre attività che lo stesso potrà porre in essere per risolvere lo stato di crisi nella generalità dei casi solo “annusata”, ma sempre e comunque sotto il controllo e la direzione del Collegio di Esperti e del referente dell’“OCRI”.
Dall’ esame dell’operatività dell’“OCRI” emerge un’osservazione quanto meno inquietante legata ai “Segnali di allerta” che saranno inviati da:
l’organo di controllo dell’impresa, ovvero dal Collegio Sindacale o dall’Organo di Revisione per le Società di Capitali obbligate alla sua presenza;
dai creditori pubblici qualificati:
Agenzia Entrate,
Inps,
Agente Riscossione.
Partendo da questi ultimi basterà allora un ritardato o omesso versamento di contributi, imposte dirette, Iva, tributi vari per innescare il processo di segnalazione all’“OCRI” con tutte le conseguenze negative del caso.
Ma è nella realtà delle imprese dover gestire il pagamento di questi tributi potendo contare su una elasticità che viene loro imposta dalla operatività giornaliera.
Il ritardato pagamento di un tributo non rappresenta, nella generalità dei casi, la premessa di una condizione di insolvenza, ma unicamente il segnale di una momentanea illiquidità che viene normalmente superata in breve tempo per iniziativa dell’imprenditore, che attiva contro-misure ad hoc, o per la dinamica dei flussi di cassa che da soli possono rialimentare il circolante consentendo quindi di rientrare da un’esposizione solo temporanea.
Sempre a proposito degli Organi di Controllo, e quindi facendo riferimento alle sole società di capitali, va detto che la loro obbligatorietà non è per tutti ma unicamente per le Srl-Spa che nel biennio precedente, cominciando con il 2017-2018, abbiano raggiunto e superato in entrambi gli anni uno dei seguenti risultati:
un volume di ricavi di 2.000.000,00 di Euro;
un volume di attivo del proprio Stato Patrimoniale di 2.000.000,00 di Euro;
un numero medio di occupati (espresso in ULA, Unità Lavorative Annue) pari a 10.
Per molte imprese, specie se piccole, i primi due parametri potrebbero non essere facilmente superabili al contrario del terzo.
Di qui un allargamento importante della platea delle società di capitali che dovranno dotarsi degli organi di controllo.
Superati i limiti, ecco comparire per le società di capitali l’Organo di Controllo, come detto ad esse ben noto, soprattutto a quelle di maggiori dimensioni rispetto a coloro che si vedranno obbligate a nominarlo per effetto della riforma, che peserà nella gestione aziendale di imprese a questo punto anche piccolissime.
Un peso attribuibile non soltanto al suo costo annuo, ma soprattutto all’obbligo imposto all’imprenditore di confrontarsi quasi quotidianamente con un Organismo che si è dovuto “portare a casa” per forza in quanto impostogli da Organismi superiori e che necessariamente intralcerà la sua gestione quotidiana.
Le piccole imprese, che più subiranno il peso di questa ennesima “pastoia” burocratica data la riduzione a valori estremamente bassi dei limiti dimensionali di riferimento, sono spesso a base familiare più o meno ristretta, ovvero composte da artigiani che collaborano tra di loro e con i loro operai, oppure da soggetti legati da vincoli di amicizia; tutte circostanze, queste, che consentono una gestione elastica ed adattabile di giorno in giorno alle necessità, anche con alcune forzature ben comprese ed accettate dai componenti di tali strutture di impresa.
L’ Organo di Controllo ha, sotto questo profilo, un atteggiamento del tutto opposto.
Esso è preoccupato che la mancata segnalazione da parte sua di una condizione di allerta, figlia di un qualunque atto di amministrazione posto in essere dall’ Organo Amministrativo della Società secondo la logica di una conduzione familiare, lo renda corresponsabile in relazione agli effetti che quella certa azione amministrativa possa generare se non bloccata immediatamente.
Basti pensare all’ipotesi che il flusso di cassa operativo (Cash Flow) sia in un determinato momento negativo per l’impresa a causa di crediti inesigibili a breve e, dunque, da un ritardo nella loro riscossione.
Questa è una condizione classica alla quale le imprese sovente sono soggette.
In un caso come questo il Revisore Contabile, intravedendo indizi di crisi aziendale e per non essere travolto comprensibilmente in una corresponsabilità con l’imprenditore (responsabilità aquiliana), certamente si attiverà per l’adozione della Procedura di Allerta valutando la opportunità secondo quegli indici già richiamati, predisposti su base statistica dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti.
Ed allora ecco che assisteremo ad operazioni assolutamente lecite, tanto più se rispondenti alla necessaria autodifesa dell’imprenditore rispetto ad una aggressione burocratica che finirà per privarlo anche della possibilità di svolgere il proprio lavoro e perseguire il proprio sogno.
Quante saranno le Società di capitali di piccole dimensioni che, potendolo fare, abbandoneranno la struttura di società di capitali (SRL e SPA), che pure avevano scelto per avere una maggiore visibilità specie all’estero, per consolidare la propria immagine di impresa seria e strutturata, per approfittare delle opportunità offerte dalla finanza ordinaria ed agevolata, per tornare ad essere società di persone ( Snc e Sas)?
Quante frammentazioni aziendali si attueranno per spalmare su due o tre società quello che prima era concentrato in una sola pur di rimanere al di sotto dei limiti dimensionali in argomento, con ciò polverizzando ancora di più il nostro comparto produttivo e allontanandolo dall’ Europa rendendolo così sempre più debole nei confronti dei competitors d’oltreconfine?
Quanta evasione si genererà pur di non superare il minimo di ricavi ammesso e quanto lavoro nero pur di non superare il numero medio di dipendenti nel biennio di riferimento?
Che la legge fallimentare del 1942 avesse bisogno di essere rivista almeno in parte dopo ben 77 anni dalla sua promulgazione potrebbe essere una opinione condivisibile, ma in questo caso l’Amministrazione ha operato un intervento “a gamba tesa” nel mondo dell’impresa in un momento di estrema difficoltà strutturale e di necessità per l’imprenditore di fare un salto di qualità affinché la crisi devastante degli ultimi anni finisca per appartenere definitivamente al passato.
Non va certo in questa direzione il caricarlo di ulteriori balzelli e sottoporlo a degli organismi “sovranisti” così da ricondurlo ad una condizione di inferiorità rispetto al suo ruolo.
Si è fatta una volta di più una scelta che non pone l’impresa al centro, non le riconosce il ruolo di motore dell’economia, non le attribuisce il ruolo sociale che le spetta.
Tanto più che la legge fallimentare non è rimasta immutata in tutto questo tempo dal momento che, nel corso degli anni si è assistito a vari tentativi del Legislatore, più o meno riusciti, di riforma parziale, talvolta introducendo nuovi ambiti di intervento, come la “Ristrutturazione del Debito” e le nuove tipologie concordatarie, ma senza mai riuscire a centrare il vero obiettivo di rendere la procedura di fine vita dell’impresa (il fallimento) o di ristrutturazione del debito (il concordato extragiudiziale) snella e veloce nel rispetto dei diritti fondamentali delle persone coinvolte peraltro assenti nella Legge Fallimentare del 1942.
Che il “Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza" apporti delle novità alla normativa fallimentare del 1942 è un dato di fatto, ma che le medesime determinino la certezza della soluzione tempestiva della crisi è certamente una macchinosa aspirazione, la quale, nella migliore delle ipotesi, non esclude la recidiva della malattia, ed allora, com’è di tutta evidenza, l’azienda potrà nuovamente ritrovarsi sottoposta a una nuova Procedura di Allerta, circostanza questa che potrà accadere lungo tutto l’arco della sua vita.
Vi è un sospetto fondato, che cioè tali novità rappresentino una forzatura burocratica solo apparentemente tesa all’individuazione preventiva della crisi a salvaguardia della continuità aziendale, ma in realtà altro non siano che un pericoloso tentativo dirigistico di sottomettere l’autonomia privata e, dunque, il tessuto economico allo Stato e alle Banche le quali, non a caso, sono stati innalzati a creditori qualificati con poteri di tutela individuale talmente elevati che nemmeno la legge sul fallimento del 1942 aveva potuto riconoscere loro.
Il tutto in barba al concetto di par-condicio e di laissez-faire, locuzione quest’ultima nota per la illuminata teoria liberista di Adam Smith secondo cui “l’imprenditore è spinto da una mano invisibile (il mercato) tanto che nel perseguire un interesse personale finisce ineludibilmente col perseguire anche quello degli altri (collettività)”.
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© Questo articolo, a firma di Attilio Sartori, è apparso per la prima volta sul Blog LA MOSSA GIUSTA.
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